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Nba, parte la Lega che cresce di più nel mondo

L’Nba ha già vinto, a qualche giorno dal lancio della prima palla a due. Parte (il 16 ottobre) forse l’edizione più attesa dell’ultimo decennio del campionato di basket americano, quella che vede Lebron James, la stella polare della Lega, uno degli sportivi più mediatici e influenti del globo, con la casacca dei Los Angeles Lakers, la franchigia della pallacanestro per eccellenza, un brand che moltiplica dollari in successione, come pochi altri nello sport mondiale. Un duo esplosivo, un candelotto di dinamite da miliardi di dollari complessivi, tra biglietti al palazzetto, contratti televisivi, i dividendi della torta da marketing, merchandising. Lebron, il kid dell’Ohio che si schiera contro Donald Trump, che vede i suoi pantaloncini gialli (con il viola, il colore della divisa dei Lakers) dal costo di 500 dollari esauriti negli store Nba di Los Angeles nel giro di pochi minuti. E i californiani, che solo dalla tv regionale, Time Warner Charter, incassano quasi 200 milioni di dollari l’anno.

Ma la Nba non è solo James, solo i Lakers, i New York Knicks o la partita singola al palazzetto dello sport. Ormai è cultura popolare, è la password d’accesso che tiene assieme i giovani e gli appassionati con qualche anno in più. E’ spettacolo, con milioni di spettatori che pagano per gustarsi le partite sul sito, il richiamo sempre più forte sugli sponsor, sulle multinazionali. In questo momento, è la lega che cresce di più a livello internazionale, più della Premier League, della Nfl. E presto, anche se il football resta lo sport più popolare negli Stati Uniti e il calcio la prima potenza planetaria, sarà la prima industria sportiva mondiale, dopo esser finita a un passo dal burrone, senza sponsor e stelle agli inizi degli anni ‘80, prima dell’arrivo di Magic Johnson, Larry Bird e poi di Michael Jordan, il fenomeno della provvidenza.

E questo perché è costruita, strutturata intorno alle stelle, che accedono – oltre ai contratti individuali – a una parte dei profitti, diventando il veicolo per produrre visibilità, contatti – e quindi dollari – alla Lega, con i proprietari sempre piazzati un passo indietro, in seconda fila, pochi egoismi, nessuna interferenza nel lavoro di coach o giocatori, quasi sconosciuti tra il pubblico nelle partite. Ma che contano i dollari, tanti, in banca, come gli altri attori della vicenda. Mentre si chiude la preseason, è già pianificata la prossima, con trasferte in India, Cina, Giappone, oltre all’Europa: a gennaio, il 17, New York e Washington s’incrociano alla O2 Arena di Londra e settimane prima ci sono due partite, Orlando contro Utah e poi Chicago, a Città del Messico. Insomma, un prodotto globale. Con ogni franchigia, anche quelle in realtà di piccolo cabotaggio, come Oklahoma, Minneapolis, San Antonio, Charlotte, che ora vale oltre un miliardo di dollari.

Tutto perfetto? Qualche crepa c’è. Spesso la Lega è stata citata come esempio virtuoso – in estate si è letto della Serie A impostata su criteri simili, specie sul salary cap, da circa 91 milioni di dollari nella nuova stagione Nba – con atleti, anche superstar, con contratti bloccati per l’intera durata, senza adeguamenti salariali, praticamente in mano alle franchigie. E invece nelle ultime due stagioni – ultimo caso Jimmy Butler, stella di Minnesota che sta obbligando i Timberwolves a mandarlo via, a scambiarlo (perché nella Nba non esiste il cartellino dell’atleta, che va via solo con scambi di pari valore, ovvero che il salario di chi arriva corrisponda a quello in uscita) – gli atleti si sono ribellati. Con l’aiuto dei social creano cortocircuiti mediatici per liberarsi da accordi lunghi con le società per trasferirsi altrove, preferibilmente verso le franchigie più glamour e in città dove non si vive solo di basket, dai Los Angeles Lakers ai Chicago Bulls, New York Knicks. Come avviene nel calcio europeo, in Serie A, in Premier League. Un processo che rischia di mandare in crisi un sistema che ha conosciuto anche scioperi di atleti, di arbitri, per i rinnovi dei contratti collettivi di lavoro ma vantaggioso sinora per tutti, dai giocatori, ai patron, agli sponsor e ai tifosi.

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