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DI Dignità, Di Maio: “non ci sarà fiducia al Senato”

Il decreto Dignità in discussione al Senato sarà approvato “senza la fiducia”. Io “credo non ci dovrebbe essere la fiducia e non ci sarà” afferma il vicepremier e ministro del Mise e del Lavoro Luigi Di Maio, durante la trasmissione Agorà, ricordando come alla Camera ci sia stata “una discussione franca con le opposizioni” le quali, secondo alcuni senatori di maggioranza, avrebbero un “atteggiamento ostruzionistico”.

L’attento scrutinio dell’opposizione sta frenando i lavori delle commissioni Finanze e Lavoro del Senato che ieri si sono protratti fino a tarda serata. Molte le criticità riscontrate, soprattutto dal Pd, che hanno portato a un riesame di ogni singolo emendamento del decreto: degli oltre 700 presentati, al termine della giornata, ne erano passati al vaglio solo un centinaio. In particolare, a far discutere non solo l’opposizione, ma gli stessi Cinque Stelle, la norma che espelle dalle graduatorie per l’insegnamento le maestre che non abbiano conseguito i due anni di anzianità nelle scuole pubbliche, e che provocherebbe il licenziamento di quasi 15 mila insegnanti.

Al momento l’obiettivo rimane comunque quello di chiudere con il voto dell’Aula martedì o a al più tardi mercoledì, visto anche l’impegno dell’assemblea con il decreto Milleproroghe. Per il momento il governo continua ad escludere il ricorso alla fiducia.

E mentre il primo provvedimento simbolo si avvicina – seppur zoppicando – al via libera finale, il governo già è alle prese con la ricerca delle coperture per la prossima legge di Bilancio, mentre si ragiona sull’opportunità di accompagnare o meno la manovra con un decreto fiscale collegato, come accaduto lo scorso anno ad esempio, per anticipare l’entrata in vigore di alcune misure. Il veicolo sarebbe peraltro il più adatto se si decidesse, e la Lega rimane in pressing in questo senso, di far partire subito la ‘pace fiscale’.

Tagliare gli sconti fiscali in modo selettivo, partendo ad esempio quelli che hanno impatto negativo sull’ambiente, oppure in modo lineare, riducendo la percentuale dello sconto oggi al 19%? Ma anche spingere ancora sulla spending review, anche se i margini sono oramai ristretti, o virare sul ‘congelamento’ della spesa corrente? O ancora, estrema ratio, sterilizzare solo in parte le clausole di salvaguardia, per poter utilizzare parte del gettito aggiuntivo dell’Iva per attuare il contratto gialloverde.

Di ipotesi tecniche, sul tavolo, ce ne sono già parecchie, molte delle quali ripescate tra le proposte studiate già in passato, a partire dalla riduzione lineare delle tax expenditures. Di tempo per le decisioni politiche ancora ce n’è, e già al prossimo vertice a Palazzo Chigi, che si dovrebbe tenere in settimana, probabilmente si inizierà ad analizzare qualche capitolo più nel dettaglio. I due azionisti dell’esecutivo, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno comunque già detto ‘no’ a qualsiasi ipotesi di aumento della tassazione, anche se l’Iva sarebbe un aumento indiretto.

Diverso sarebbe se si lasciasse salire l’imposta sul valore aggiunto solo per determinate categorie di beni, sfruttando le risorse per abbassarla su altri di largo consumo come già tante volte si è tentato di fare (dai prodotti per la prima infanzia alle bollette). Ma si tratterebbe comunque di aumenti di tasse. Stesso scoglio lo dovrebbe superare anche un eventuale taglio delle detrazioni, perché di fatto anche minori sconti si traducono in maggiori imposte da pagare.

La maggioranza, così come pattuito con il ministro dell’Economia Giovanni Tria, punta invece ad avviare il calo delle tasse, partendo dalle partite Iva e, se possibile, anche da alcune misure in favore delle famiglie, specie quelle numerose. C’è poi da finanziare anche il reddito di cittadinanza con il primo step rappresentato dalla riforma dei centri per l’impiego. Si cercherà, per quest’ultima misura, di utilizzare anche i fondi europei.

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