Donald Trump ha innescato un’ondata di scetticismo e l’Ue si muove in due direzioni opposte. Molte ombre sul Diversity, Equity and Inclusion.
Le politiche di diversity aziendale sono oggi al centro di un acceso dibattito globale. Da un lato, negli Stati Uniti si sta assistendo a un crescente rollback normativo e culturale: dopo la presidenza Biden, che aveva rafforzato gli impegni delle aziende in materia di Esg, il ritorno di Trump ha innescato un’ondata di scetticismo e restrizioni sulle politiche di diversity.
Dall’altro lato dell’Atlantico, l’Unione europea si muove in due direzioni opposte: mentre nel marzo 2025 ha lanciato una nuova Roadmap per la diversity e la parità di genere, rafforzando il proprio impegno su questi temi, ha anche reso noto il pacchetto Omnibus, una proposta di revisione normativa che, in nome della semplificazione, potrebbe segnare un dietrofront in materia di giustizia sociale e influenzare anche le politiche di inclusione aziendale.
Queste dinamiche mettono le aziende in una situazione complessa: da un lato, pressioni politiche e culturali rendono più difficile sostenere le politiche di inclusione senza subire attacchi; dall’altro, il quadro normativo in evoluzione può generare incertezza, soprattutto a fronte di investimenti e percorsi intrapresi per la cosiddetta transizione equa e giusta.
Negli Stati Uniti torna la stretta sulla diversity
Negli ultimi anni, molte aziende americane hanno investito in iniziative di Diversity, Equity & Inclusion (Dei), riconoscendone il valore strategico per attrarre talenti, migliorare la reputazione e rispondere alle richieste di investitori sempre più attenti agli Esg.
Con l’amministrazione Trump, si è assistito a una forte opposizione a queste politiche, con accuse di “discriminazione inversa” e pressioni per ridimensionare i programmi di inclusione. In siffatto contesto, molte sono le imprese made in Usa che annunciano di smantellare i programmi Dei o che hanno ritirato il supporto economico alle organizzazioni impegnate in questo ambito, con un costo elevato nel lungo periodo in termini di attrazione di talenti e fiducia dei consumatori, soprattutto considerando l’importanza che la Gen Z attribuisce a questi valori.
Alla luce di queste dinamiche, parte del settore privato inizia discretamente a sviluppare nuove strategie di resilienza, cercando di bilanciare le pressioni politiche con un riadattamento del linguaggio. E così se “diversity” e “women” diventano parole vietate, allora si parla di programmi di leadership e valorizzazione del talento dedicati alla popolazione aziendale e agli stakeholder chiave.
L’Unione Europea tra leadership sulla diversity e semplificazione normativa
Mentre negli Stati Uniti il trend ufficiale sembra essere quello del disimpegno, l’Unione Europea ha adottato un duplice approccio: da un lato, ha rafforzato il proprio impegno sulla parità di genere e l’inclusione con una nuova Roadmap lanciata nel marzo 2025; dall’altro, ha introdotto proposte di modifiche normative attraverso il pacchetto Omnibus, con il rischio di influenzare di riflesso le politiche di inclusione aziendale.
La nuova strategia Ue sulla diversity
Presentata a marzo 2025, la nuova strategia europea per la parità di genere e la diversity rafforza le tutele per donne e minoranze in un contesto globale segnato da crescenti attacchi ai diritti. L’obiettivo è consolidare i progressi raggiunti e garantire un quadro normativo più ambizioso. Tra le principali misure previste:
- Parità salariale obbligatoria, con strumenti più stringenti per monitorare e ridurre il gender pay gap.
- Quote di genere più ambiziose nei board aziendali e nei settori Stem, per aumentare la leadership femminile e ridurre il divario di genere nelle professioni strategiche.
- Maggiori tutele per i diritti delle donne, con misure rafforzate contro la violenza di genere e nuove iniziative per la protezione sociale.
- Nuovi standard Esg per la rendicontazione sulla diversity, per garantire maggiore trasparenza nelle pratiche aziendali e facilitare la comparabilità tra le imprese.
Se da un lato quindi, con la nuova Roadmap l’Europa dichiara di scegliere di rafforzare la protezione dei diritti e promuovere una società più equa e inclusiva, rimane poco chiaro come il focus sui nuovi standard di rendicontazione in ambito diversity possano allinearsi con la semplificazione proposta da Omnibus.
In tale contesto, rimarchevole che dal comparto energia a banking si moltiplichino gli statement delle aziende che ribadiscono pubblicamente il loro impegno sulla Dei. Maggiore timidezza si evince invece su Omnibus e la deregulation Esg, dove ad alzare la voce rimane principalmente la società civile.
CSW69: l’urgenza di un’azione concreta
Questa discussione si inserisce in un contesto più ampio. Durante la 69ª sessione della Commissione sullo Status delle Donne (CSW69) delle Nazioni Unite, appena conclusa a marzo 2025, è stata pubblicata una Dichiarazione Politica che ha fatto il punto sulla Dichiarazione di Pechino del 1995, sottolineando che nessun Paese ha ancora raggiunto la piena parità di genere e che gli ostacoli persistono:
- Discriminazioni strutturali, con un divario economico e occupazionale ancora troppo ampio.
- Violenza di genere e povertà femminile, che continuano a limitare l’accesso delle donne alle opportunità.
- Nuove sfide legate alla tecnologia e all’intelligenza artificiale, che rischiano di escludere ulteriormente le donne dal mondo del lavoro e della governance digitale.
L’Onu ha ribadito che la parità di genere non può più aspettare e che servono azioni più incisive a livello globale per eliminare le disuguaglianze. Il segretario generale António Guterres ha lanciato un appello chiaro: “Il rimedio rimane sempre l’azione”.
Questo conferma che le scelte politiche ed economiche in materia di diversity non sono solo questioni aziendali o locali, ma parte di un dibattito globale sulla giustizia sociale e sulla sostenibilità.
Un futuro incerto tra politiche divergenti
Il quadro globale appare sempre più frammentato: mentre negli Stati Uniti le aziende sono sotto pressione per ridurre le iniziative di diversity, l’Europa sembra voler rafforzare il proprio ruolo di leader in materia di diritti e inclusione, pur lasciando spazio a una deregulation che introduce incertezza e potrebbe penalizzare gli standard Esg.
Rimane in ogni caso evidente che le aziende che sceglieranno di mantenere un impegno forte su questi temi saranno probabilmente quelle che, tra qualche anno, si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto a chi avrà seguito la via del disimpegno.
L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia dell’aprile 2025 (numero 3, anno 8)