“Troppe aree buie su cui fare luce”. La passione per la scienza è nata sui banchi di scuola per Sandra Silvestri, Executive Vice President & Chief Medical Officer di Ipsen, passata dalla medicina alla farmaceutica con la convinzione che “il successo – come dice a Fortune Italia – è l’impatto positivo che riusciamo ad avere sulla vita delle persone”.
Classe 1973, nata a Pisa, Sandra Silvestri è specialista in endocrinologia e malattie metaboliche, con un Dottorato in Medicina interna e malattie cardiovascolari e un master di Secondo Livello in farmacogenetica. Dopo anni di ricerca e clinica, nel 2005 passa alla farmaceutica, inanellando esperienze internazionali in aziende del calibro di Sanofi ed Eli Lilly.
Entrata in Ipsen come direttore medico nel 2023, Silvestri guida le strategie e i programmi di sviluppo clinico di nuovi farmaci, con un forte focus sull’innovazione in neurologia, oncologia e malattie rare. Il suo team comprende centinaia di medici, data scientist, esperti sanitari impegnati in circa 100 Paesi sul fronte dello sviluppo clinico, della patient safety e dell’analisi dei dati. “Non dobbiamo aver paura di fallire o di commettere errori – dice la manager alle giovani donne – se non facciamo errori non possiamo imparare e andare avanti. Non abbiate paura di accettare nuove sfide ed uscire dalla vostra area di confort, solo cosi si impara e si cresce”.
Un medico prestato al pharma: come nasce la sua passione per la scienza e come valuta oggi il suo impegno in Ipsen?
La mia passione per la scienza è nata sui banchi di scuola, quando frequentavo il liceo. Ho incontrato un professore di fisica “illuminato” che è riuscito a stimolare la mia curiosità sull’essenza della materia e le leggi che la regolano. Ricordo con ancora grande entusiasmo le ore passate a parlare delle tante applicazioni della fisica alla filosofia e tutto ha iniziato ad avere un senso più profondo. Quando poi al liceo ho iniziato ad approfondire lo studio delle cellule e del corpo umano e il suo funzionamento, ho capito che c’erano ancora troppe aree buie su cui fare luce, così ho deciso di dedicarmi agli studi scientifici e di iscrivermi alla facoltà di Medicina. Dopo la laurea, mi sono specializzata in Endocrinologia e Malattie Metaboliche, cui è seguito un dottorato in Medicina Interna e Malattie Cardiovascolari e un master di secondo livello in Farmacogenetica.
Ho passato tanti anni nei laboratori a fare ricerca e, come medico, mi sono presa cura dei pazienti, per avere un impatto sul loro benessere e sulla loro qualità di vita, in primis come persone. Quel momento ha rappresentato per me l’inizio di un percorso, nato dal desiderio più alto di usare i dati raccolti in laboratorio, a livello micro, e applicarli a livello macro, su grande scala, per ottenere il massimo impatto e contribuire in modo significativo a migliorare la vita di più persone possibili. Questa, per me, è la magia della scienza e del mio lavoro in Ipsen.
Quali le sue priorità sul fronte della ricerca: c’è un obiettivo che le sta particolarmente a cuore?
In Ipsen siamo impegnati su tre aree terapeutiche: l’oncologia, le malattie rare e le neuroscienze. Nell’area delle malattie rare, il nostro lavoro di ricerca si sta focalizzando prevalentemente su malattie ossee e del fegato. Per quanto riguarda l’area pediatrica, i bambini con malattie epatiche rare vanno nel tempo incontro a trapianto di fegato; il nostro obiettivo è ridurre il numero di tali trapianti mantenendo più a lungo possibile il fegato naturale e rallentando la progressione della malattia.
In ambito oncologico, stiamo facendo un intenso lavoro di ricerca sui tumori del rene, del pancreas, sui linfomi e più recentemente ci stiamo concentrando sullo studio di una neoplasia che colpisce in particolare i bambini: il glioma a basso grado di differenziazione, un tumore cerebrale pediatrico.
Nelle discipline Stem non si riesce a colmare il gender gap, un problema serio in Italia. Ma la medicina sta diventando sempre più rosa. Come spiegare alle giovanissime che la scienza è una ‘materia da ragazze’?
Se ci pensate, le donne hanno trasformato la scienza, la tecnologia e la medicina per generazioni attraverso le loro scoperte rivoluzionarie, aprendo la strada alle discipline Stem e plasmando il futuro del settore a livello globale. Il Forum economico mondiale afferma che un terzo di tutte le carriere Stem è ricoperto da donne e il mio augurio è che questo numero continui ad aumentare di anno in anno.
Il messaggio che lancio alle giovani donne, e quello che racconto loro durante gli incontri di mentorship – in cui credo fortemente – è che devono avere fiducia in se stesse, riconoscere il proprio valore e contributo, osare e correre rischi. Noi donne siamo troppo perfezioniste e troppo esigenti con noi stesse. Le barriere esistono, ma dobbiamo assicurarci di non rappresentare proprio noi la nostra prima barriera. Non dobbiamo aver paura di fallire o di commettere errori, se non facciamo errori non possiamo imparare ed andare avanti. Dobbiamo proporci, essere curiose e proattive, andare a cercare occasioni con coraggio e determinazione. Non abbiate paura di accettare nuove sfide ed uscire dalla vostra area di confort, solo cosi si impara e si cresce.
In Ipsen ci sono profili professionali che state cercando e faticate a trovare?
Per quanto riguarda la mia funzione i profili principali che cerchiamo sono medici o PHD in scienze, con una grande competenza scientifica, di pratica clinica e di ricerca, ma anche con un capacità di comprendere il business e i sistemi sanitari in cui operiamo. Altri profili molto ricercati sono esperti in big data, intelligenza artificiale e tecnologie digitali applicate alla ricerca clinica.
Spesso lamentiamo la fuga dei giovani cervelli, ma nel suo settore quanto è importante un’esperienza all’estero?
Sono una grande sostenitrice delle università italiane e della eccellente preparazione che il mondo accademico italiano dà agli studenti in ambito scientifico, tecnologico e matematico. Però riconosco anche le difficoltà di accesso al mondo della ricerca in Italia, al reperimento dei finanziamenti, senza considerare il precariato economico dei ricercatori e le incertezze nel poter costruire una famiglia. Sono difficoltà che ho vissuto sulla mia pelle e che mi hanno portato fuori dall’Italia.
Altro aspetto da considerare è la rete sociale, di cui l’Italia è ancora poco provvista rispetto ad altri Paesi come la Danimarca – in cui ho vissuto e lavorato – Una rete che permette alle donne di conciliare un’appagante vita lavorativa, anche ad alti livelli, con la vita privata e la famiglia. Non si deve scegliere tra lavoro e famiglia, si possono avere entrambe, ma per fare cio é indispensabile una suddivisione delle responsabilita anche domestiche. Per me il supporto e la condivisione delle responsabilità familiari con mio marito sono stati essenziali.
Fare un’esperienza all’estero è a mio parere molto importante, anche nell’ottica di tornare in Italia arricchiti di un bagaglio di competenze che vanno al di là degli ambiti specifici di specializzazione e riguardano più in generale il modo di lavorare in team, abbracciando diverse culture e molteplici prospettive, portando spunti nuovi e idee per continuare ad evolvere.
Perché a suo parere oggi un giovane dovrebbe intraprendere una carriera nel settore della salute?
Credo che la motivazione più grande risieda nella consapevolezza che l’avanzamento della ricerca scientifica e della medicina stia portando a nuove soluzioni terapeutiche per le persone che più ne hanno bisogno, migliorando la loro qualità di vita ed esperienza di malattia. Questo è ciò che mi ha sempre spinto a mettercela tutta e a fare la differenza, perché alla fine il successo è l’impatto positivo che riusciamo ad avere sulla vita delle persone.