Per parafrasare Oscar Wilde, la notizia della morte delle rinnovabili è ampiamente esagerata. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, più che il requiem per la transizione verde, segna la necessità di un generale ripensamento delle politiche energetiche.
Se perfino la pacifica, disabitata ma ricca – di gas, petrolio e terre rare – Groenlandia è tornata al centro del risiko globale, il mondo si avvia chiaramente verso la definizione di nuove sfere d’influenza e l’energia torna ad essere un’arma poderosa.
Sapevamo che l’autosufficienza degli Usa avrebbe avuto un effetto domino. L’America estrae in casa più gas naturale di quanto non riesca a consumare. Il ‘Drill, baby, drill’ trumpiano è dunque innanzitutto un manifesto (geo)politico. Le sue conseguenze sono presto dette: a cominciare dal richiamo all’Europa perché faccia di più per riequilibrare la bilancia commerciale.
Ora che noi europei siamo a un passo dal superare definitivamente la dipendenza dalla Russia, comprare più gas di scisto da Oltreoceano può essere un’idea economicamente e strategicamente vantaggiosa.
Ma Trump, da leader post-ideologico, non abbandonerà del tutto le tecnologie verdi. Semplicemente non punterà sulla sola corsa al green, ben sapendo che potrebbe arrivare secondo. Cosa che al presidente americano non è mai piaciuta.
Tecnologie verdi e batterie, infatti, assieme a biotecnologie, Intelligenza Artificiale e spazio sono tra i settori che Xi Jinping ha individuato come prioritari per il successo definitivo della Cina, annunciando investimenti per 1.600 miliardi di dollari nel prossimo quinquennio.
L’Europa rischia purtroppo anche in questo caso il ruolo del vaso di coccio. A meno che non si compia lo scatto di orgoglio di uno spazio europeo dell’energia. Reti comuni sono possibili, soprattutto alla luce della buona risposta all’invasione russa dell’Ucraina.
Oggi noi europei siamo già più sicuri ma dobbiamo accettare l’idea che i prossimi anni avranno alcuni chiari connotati legati all’energia: la sua politicizzazione e ‘weaponization’; la diversificazione estrema; l’aumento degli investimenti in tecnologie di frontiera, come idrogeno e nucleare di quarta e quinta generazione.
La vittima più illustre di questo ritorno alla geopolitica dell’energia potrebbe essere chiaramente il clima. Su questo punto il dibattito si è da tempo polarizzato in due curve di tifosi: catastrofisti contro negazionisti. Nulla di più sbagliato.
I Governi dovrebbero valutare soprattutto le implicazioni strategiche del cambiamento climatico. Eventi climatici estremi costano già alcune centinaia di miliardi di dollari a livello globale (si pensi alla recente devastazione di Los Angeles).
La desertificazione e l’innalzamento del livello dei mari spingono le popolazioni a migrazioni forzate. La distruzione della biodiversità scatena frequenti salti di specie di virus letali.
Anche il clima, dunque, è una questione politica e strategica. Se letta in questa chiave, forse, c’è spazio perché nelle Cancellerie si discuta, per l’appunto, con più pragmatismo e meno ideologia.