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Perché c’è una logica nel “metodo Trump”

Donald Trump ordini esecutivi
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Velasco25 Articolo

A volte i leader del mondo non vanno presi alla lettera. Chi definisce “madman diplomacy” lo stile e le gesta inaugurati da Donald Trump, può forse compiacersi nell’affibbiare del “matto” al 47imo Presidente degli Stati Uniti ma mostra, in fondo, di non aver colto il senso profondo del second term trumpiano. C’è metodo nell’azione di Trump, molto più di quanto si creda.

In un’epoca in cui la supremazia americana non è più una certezza (il caso della startup cinese “Deepseek” ne è la prova: persino nel campo dell’intelligenza artificiale da tempo i cinesi non si limitano a copiare ma sono in grado di innovare), Trump sa che per farsi ascoltare deve battere i pugni sul tavolo. “Shock and awe”, colpisci e terrorizza. Oggi la minaccia più efficace verso la Cina come verso l’Europa è data dai dazi sulle importazioni. Così, dopo aver firmato i primi ordini esecutivi per avviare una raffica di espulsioni e rimpatri (è il significato della parola inglese “deportation”, tradotta maldestramente in “deportazione”), Trump minaccia la Colombia di introdurre dazi del 25 percento (e fino al 50 percento allo scadere del settimo giorno). Risultato: il presidente colombiano Gustavo Petro torna sui propri passi e, dopo aver inizialmente rifiutato di far atterrare due “voli militari” carichi di immigrati colombiani, accetta i voli anche militari (meglio difendere l’industria dei fiori colombiana alla vigilia di San Valentino).

Donald Trump è un “dealmaker” per natura. Da imprenditore, sa bene che per ottenere cinquanta devi pretendere cento. La sua è una leadership transazionale. Qualcuno pensa davvero che gli Usa dichiareranno guerra alla Danimarca? In realtà, il bersaglio delle invettive trumpiane sulla Groenlandia riguardano Russia e Cina la cui influenza, in quell’area dell’artico, è crescente, a dispetto della presenza danese che, per Trump (e per molti analisti), non appare sufficientemente equipaggiata per far fronte alle esigenze di sicurezza. Trump dice che i danesi adesso hanno acquistato “un paio di slitte con i cani”, un po’ poco laddove servirebbero navi e droni. Stesso discorso vale per il Canale di Panama, ceduto per un dollaro dal presidente Carter nel lontano 1999: oggi quella che è una delle vie d’acqua più cruciali al mondo è in mani cinesi. Qui Pechino ha messo radici diventando un attore chiave nell’America latina (l’azienda cinese Hutchison-Whampoa ha ottenuto dal Governo panamense la concessione in esclusiva della gestione dei porti).

È un fatto che, dopo l’inconcludente “shuttle diplomacy” dell’amministrazione Biden (con l’allora Segretario di Stato Blinken impegnato in un vortice di missioni in Medioriente), il conflitto di Gaza sia giunto a un punto di svolta alla vigilia dell’insediamento di Trump. Merito suo, delle minacce scagliate contro Hamas (“all hell will break out”, si scatenerà l’inferno), del suo rapporto speciale con il premier Netanyahu (che adesso conta sulla ripresa degli Accordi di Abramo, estesi all’Arabia saudita). Non sappiamo quanto durerà ma oggi, con Trump alla Casa bianca, c’è la tregua a Gaza. Non basteranno invece “quarantott’ore”, come aveva promesso in campagna elettorale, per siglare la pace tra Russia e Ucraina ma, anche in questo hotspot, la disponibilità di Trump a incontrare il presidente della Federazione russa è una mano tesa per una trattativa che, da qui a fine anno, potrebbe far tacere le armi. L’obiettivo di Trump è ricostruire la Grande America, restituire l’America agli americani, abbattere i prezzi dei beni alimentari e mandare via gli undici milioni di clandestini presenti sul territorio nazionale. Delle guerre in giro per il mondo, Trump non vuole occuparsi. Potrà apparirci scomposto il linguaggio del presidente Usa ma esercitare il ruolo di “commander-in-chief” della prima – non sia sa per quanto – potenza militare al mondo non è roba da mammolette. Trump vuole farsi capire dall’America autentica. Ha i suoi modi “tough” ma, tra quattro anni, potremmo scoprire che poi, in fondo, abbia fatto persino meglio dei suoi (elegantissimi) predecessori.

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