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Il business oscuro delle mafie: Nicola Gratteri svela i meccanismi del potere criminale

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Velasco25 Articolo

Nicola Gratteri è uno di quei magistrati per i quali la professione è una missione. Al punto che la libertà amputata dalle restrizioni di una vita sotto scorta appare un dettaglio irrilevante. “Ho sempre pensato che il mio lavoro e, di conseguenza, le limitazioni ai miei movimenti fossero necessari, anzi utili. Non mi lamento – scandisce il procuratore della Repubblica di Napoli – Vivo la mia vita con passione ed entusiasmo, sono innamorato del mio lavoro. E i sacrifici non mi pesano molto”.

Il nostro è un business magazine, con un focus sulle imprese. Qual è oggi l’impatto economico delle mafie in Italia?
È difficile quantificarlo, ma si ha motivo di ritenere che le mafie siano presenti in vari settori produttivi, sia tradizionali che nuovi, come edilizia, appalti, commercio, sanità, rifiuti, energie rinnovabili, turismo e servizi sociali. È un impatto di lungo periodo. Con le mafie da tempo si è deciso di convivere.

Nel suo ultimo saggio dal titolo ‘Una cosa sola’, lei afferma che oggi le mafie non sparano ma il loro potere non è mai stato così forte.
Con Antonio Nicaso, abbiamo scritto un libro per spiegare come le mafie si siano integrate al potere. È un libro che fa capire l’ipocrisia di molte istituzioni che continuano a pensare che non esista il denaro pulito e quello sporco. Esiste solo il denaro. E fa comodo a tanti.

Si può dire che oggi la mafia spara meno ed è più dedita al business?
Le mafie non sono monolitiche. Ci sono clan che non si sono mai mossi dai luoghi d’origine e altri invece che hanno messo radici anche in Paesi lontanissimi, come l’Australia. Ci sono anche aree del nostro Paese in cui la notevole presenza di armi crea un giustificato allarme sociale. In generale, la strategia è quella di evitare quanto più possibile la violenza, soprattutto dove vengono investiti i proventi delle attività illecite. La strage di Duisburg, per esempio, per la ‘ndrangheta si è rivelata controproducente, tanto che si è fatto di tutto per mettere fine a quella faida che durava dal 1991. È ovvio che essendo organizzazioni criminali non rinunceranno mai alla violenza, ma saperla usare contribuisce a creare maggiori guadagni e minori rischi.

Alcuni mesi fa, intervenendo presso la sede Onu di New York, lei ha affermato che negli ultimi anni c’è stata una ‘forte accelerazione’ delle mafie nel dark web dove si svolgono transazioni per tonnellate di cocaina, armi e prostituzione. È la nuova frontiera delle mafie 2.0?
La dimensione delle mafie è sempre più ibrida, in bilico tra realtà analogica e virtualità digitale. Stanno svecchiando il capitale umano che oggi annovera pirati informatici, ingegneri chimici ed esperti nel settore della criptofonia. Usano i mercati digitali, minano criptovalute e utilizzano sistemi sempre più sofisticati per riciclare i proventi delle tante attività illecite, molte delle quali avvengono nel dominio digitale.

Gli apparati italiani sono in grado di fronteggiare la sfida di una criminalità tecnologicamente evoluta?
Siamo in ritardo rispetto ad altre polizie europee e internazionali che sono già riuscite a bucare sistemi di comunicazione cifrata, come Encro-chat, Sky-ECC e Ghost. Abbiamo il sospetto che le mafie stiano comunicando con altri sistemi ancora più sicuri e non abbiamo ancora gli strumenti per aggredire queste nuove frontiere. A questo si aggiunge un altro problema relativo alla cybersicurezza. Le ultime indagini hanno dimostrato la debolezza dei nostri sistemi, sia quelli pubblici che privati. Bisognerebbe cominciare a correre, altrimenti restiamo indietro.

Una riflessione scomoda: i capitali mafiosi alimentano anche una miriade di attività economiche con ricadute occupazionali. Recidere la radice malata significa anche perdita di lavoro e disagio sociale. Come se ne esce?
Quella che lei solleva è una questione profondamente complessa. Da un lato, è vero che l’economia illecita alimentata dalle mafie può generare posti di lavoro, ma questi sono spesso connessi a condizioni di sfruttamento, insicurezza e assenza di diritti. Quando parliamo di attività mafiose che investono in settori come edilizia, rifiuti, sanità o servizi sociali, ci troviamo davanti a una distorsione del mercato e a una concorrenza sleale che crea ingiustizie, mentre alimenta la cultura della sopraffazione. Recidere questa radice malata implica un doppio lavoro: da una parte, il rafforzamento delle istituzioni e della legalità, per evitare che il crimine possa infiltrarsi nelle pieghe dell’economia legale, e dall’altra, una riflessione su come liberare i territori dalla paura e dai bisogni. La soluzione non è solo eliminare le mafie, ma anche creare opportunità che possano ridurre il ricorso all’illegalità, fornendo un’alternativa sana e vantaggiosa per tutti.

L’antimafia ha fatto più bene o male alla lotta alla mafia?
Dipende. Quella a pagamento certamente non ha fatto bene alla lotta alle mafie. Ci sono organizzazioni antimafia che si sentono investite da una sorta di primazia a fare e a controllare ogni cosa. L’antimafia dovrebbe essere intesa come vocazione, come impegno a creare il bene comune. Ma purtroppo non è così. E gli scivoloni si pagano cari in termini di immagine.

La separazione delle carriere, tra magistratura giudicante e requirente, è un cavallo di battaglia del governo Meloni e, in particolare, del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Lei ha detto che non è urgente.
E lo ripeto. Non ne vedo il senso: se l’esigenza è evitare ogni forma di appiattimento del giudice al pm, come si spiegano le tante assoluzioni? Ma poi solo lo 0,2% fa il passaggio da una funzione all’altra; e quando viene concesso, il magistrato deve cambiare Corte d’appello. Oggi c’è una forte pressione psicologica sui pubblici ministeri: io ho spalle larghe e nervi d’acciaio, mangio pane e veleno da molti anni, ma immagino i giovani magistrati che con grande entusiasmo e dopo anni di studi hanno superato un concorso e si trovano questo turbinio di riforme che non hanno nulla a che vedere con i bisogni delle parti offese e della giustizia.

Lei ha accusato il governo Meloni di aver abbassato la guardia nel contrasto alla criminalità organizzata.
Diciamo che, negli ultimi trent’anni, pochi possono dire di aver fatto qualcosa per migliorare l’azione di contrasto alle mafie. A questo Governo rimprovero di aver messo in piedi una serie di riforme che non erano assolutamente necessarie. C’era altro da fare per liberare i territori dalla paura e dal bisogno. Limitare le intercettazioni, separare le carriere e addirittura pensare di punire i magistrati per ingiusta detenzione non mi sembrano misure tese a rafforzare la lotta alla criminalità mafiosa.

Su un punto però lei e il presidente Giorgia Meloni la pensate allo stesso modo: la guerra totale alle droghe, di ogni tipo.
Su questo sono d’accordo con lei. La presidente Meloni sembra avere le idee chiare. Bisogna investire di più sulla prevenzione e sull’informazione. Tenere in carcere i tossicodipendenti non serve a nessuno. Bisogna aiutarli a disintossicarsi. Ci sono tanti centri che con amore e professionalità si occupano di chi finisce nella spirale delle droghe. Ora bisogna evitare che in Europa prenda piede il fentanyl, com’è successo in Canada, ma soprattutto negli Stati Uniti. E per questo bisogna tenere alta la guardia e far capire ai giovani che le droghe sintetiche non sono meno pericolose di quelle tradizionali.

Adesso che guida la Procura di Napoli, le tocca vivere lontano dalla sua terra, la Calabria. È vero che le mancano i suoi alberi di bergamotti?
Mi sto abituando al meraviglioso golfo di Napoli, non posso certo lamentarmi. Ovviamente mi manca la mia terra, ma ci torno quando posso. Non riesco a vivere lontano dal mio paese, dal mio bergamotteto. Ma questo non mi impedisce di lavorare con impegno e determinazione. I problemi non mancano.

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