La scomparsa di Sinwar è una buona notizia per l’Occidente. Un mondo con un terrorista in meno è un posto migliore dove vivere. Sarebbe tuttavia un’esaltazione immotivata ritenere che con la fine del capo dei capi, Hamas e il terrorismo islamico non siano più una minaccia per Israele e per il mondo libero. Per prima cosa, ci sono i 97 ostaggi israeliani, rapiti il 7 ottobre e tuttora nelle mani dei terroristi (con il corollario di abusi fisici e mentali, stupri di donne e uomini, emersi dai racconti dei sopravvissuti). E poi c’è la guerra di Gaza, le palazzine sventrate, le migliaia di civili ammazzati sotto il fuoco delle bombe. Tutti vogliamo che il conflitto termini al più presto. Ma a quale prezzo?
La premier Giorgia Meloni è impegnata, in queste ore, in una delicata missione tra Giordania e Libano. “Porre fine immediatamente alla guerra israeliana a Gaza e in Libano”, è uno dei punti comuni emersi stamane ad Aqaba tra il presidente Meloni e il re giordano Abdullah II. La parola chiave è “cessate il fuoco”. Il pensiero corre al contingente italiano in Libano, stretto nelle regole di ingaggio Unifil in una zona di guerra occupata dai terroristi di Hezbollah.
Anche dopo la morte di Sinwar, non sarà più possibile immaginare un’amministrazione della Striscia affidata ad Hamas. Lo ha chiarito, in una recente intervista a Le Figaro, il premier israeliano Benjamin Netanyahu: “I palestinesi dovrebbero avere tutti i poteri per governare se stessi ma nessuno per minacciare Israele. E dare ai palestinesi poteri militari sovrani potrebbe costituire una minaccia per Israele. Questo mi era già evidente prima del pogrom del 7 ottobre. Oggi la stragrande maggioranza degli israeliani condivide la mia opinione: Israele deve conservare il controllo della sicurezza dal mar Mediterraneo fino al fiume Giordano”. Forse, dopo la morte di Sinwar, sarà possibile riprendere il filo degli “Accordi di Abramo” con l’Arabia Saudita di Bin Salman, per portare avanti il processo di normalizzazione dei rapporti di Israele con diversi Paesi arabi.
Vale la pena ricordare che nel 2005 Israele si è ritirato unilateralmente da Gaza, poi si sono tenute libere elezioni, vinte da Hamas, che due anni dopo ha cacciato i moderati di Fatah (anche con le scene cruenti di dirigenti di Fatah scaraventati giù dai palazzi). Da allora i fiumi di denaro affluiti nelle casse di Hamas – da Onu, UE, Qatar – hanno arricchito un ceto dirigente terroristico e hanno alimentato l’industria del terrore (armamenti e tunnel). Gaza poteva diventare la Singapore del Mediterraneo, invece si è trasformata nell’inferno, in un dedalo di labirinti sotterranei, mentre la popolazione vive di stenti. Dopo il 7 ottobre, il riconoscimento di uno stato, dotato di sovranità militare, sarebbe come un premio all’indomani di un pogrom con 1200 innocenti ammazzati per il sol fatto di essere ebrei. Diverso è il ruolo che potrà giocare, ci auguriamo, una Autorità palestinese “rivitalizzata”, come auspicato dagli Stati uniti. Amministrarsi per crescere e prosperare, per allevare nuove generazioni di donne e bambini, liberi dall’ideologia terrorista e dalla dittatura delle armi. Ma alla sicurezza di Israele dovrà pensarci Israele.
Com’è noto, Sinwar aveva imparato l’ebraico nelle carceri israeliane (tornò in libertà insieme ad oltre mille reclusi palestinesi in cambio di un singolo soldato israeliano, Gilad Shalit). I medici israeliani lo hanno salvato da un tumore al cervello (come tanti cittadini palestinesi che, fino al 7 ottobre, entravano in Israele per lavorare o per curarsi). Sinwar è stato ritrovato morto, con un buco in testa, aveva con sé un pacco di caramelle Mentos, un rosario, un tagliaunghie, il passaporto di un impiegato Unrwa (sempre loro) e quarantamila shekel (circa diecimila euro) in contanti. È il ritratto di quali valori, e complicità, abbiano guidato, in questi anni, i dirigenti dell’organizzazione terroristica. Con la sua scomparsa non siamo alla fine del conflitto ma all’ “inizio della fine”, come ha scandito il premier Netanyahu in un video dopo l’eliminazione dell’arciterrorista. Sempre Netanyahu, nell’intervista citata a Le Figaro, non ha lesinato critiche al presidente Macron che ha chiesto l’embargo totale di armi a Israele: “Nel momento in cui l’Iran si assicura che i suoi alleati terroristi del Medioriente siano ben riforniti di armi, ecco che la Francia invoca un embargo sulle armi destinate a Israele.
Anche se noi non riceviamo armi dalla Francia, trovo questo appello vergognoso”. E a Macron che aveva sostenuto che lo stato di Israele è stato creato da una risoluzione Onu, il premier israeliano ha replicato: “E’ un segno di ignoranza storica e di mancanza di rispetto. L’Onu ha riconosciuto il diritto del popolo ebraico a uno stato, ma certamente non l’ha creato. L’Onu non ha partecipato alla guerra di indipendenza del 1948. Dire che l’Onu ha creato lo stato di Israele è una triste distorsione della storia”. Forse è anche l’emblema dei tempi che viviamo. Tra una Francia islamizzata e una piccola democrazia mediorientale che sta decapitando la cupola del terrorismo globale.