La Borsa, com’è noto, registra le aspettative degli investitori, e in queste ore le fluttuazioni dei prezzi incorporano le tensioni dello scacchiere mediorientale, con Israele che celebra il primo anniversario dell’eccidio del 7 ottobre tra i razzi che partono da Gaza e dal Libano diretti su diverse città israeliane.
Il mondo attende la reazione israeliana all’attacco iraniano della scorsa settimana. Il risultato è che i prezzi del petrolio continuano ad aumentare con il Brent sopra i 79 dollari al barile e il WTI (West Texas Inter mediate, benchmark per il mercato petrolifero statunitense) sopra i 76 dollari al barile. Inizio moduloSecondo una ricerca di Goldman Sachs, in assenza di gravi interruzioni dell’approvvigionamento petrolifero in Medioriente, si prevede che il Brent venga scambiato nell’intervallo 70-85 dollari al barile con un prezzo medio di 77 dollari al barile per il quarto trimestre 2024 e 76 dollari al barile per il 2025. Ciò riflette le ipotesi di un’offerta iraniana pressoché invariata fino al 2025 e tre mesi di aumenti della produzione OPEC+ a partire da dicembre 2024. Tuttavia l’incertezza regna sovrana, soprattutto rispetto alla portata e agli obiettivi di un intervento israeliano, ritenuto inevitabile.
La Borsa è da sempre termometro delle tensioni geopolitiche in alcuni “hotspot” come il Medioriente. Le ipotesi considerate dagli investitori riguardano, dunque, il tipo di reazione israeliana: l’intervento delle forze armate israeliane potrebbe riguardare i siti nucleari (per impedire al regime degli ayatollah di dotarsi, nel medio periodo, dell’arma nucleare) o estendersi alle infrastrutture petrolifere iraniane (con conseguenze sul prezzo delle materie prime e sulle supply chain globali).
L’Iran esporta un milione e settecentomila barili al giorno, soprattutto dal terminal dell’isola Kharg, a circa 25 chilometri dalla costa meridionale. Quasi la metà della sua produzione nazionale di greggio viene esportata, principalmente in Cina (il governo di Pechino ha annunciato per domani il secondo pacchetto di misure volte a stimolare la crescita). I condensati invece sono utilizzati soprattutto a livello nazionale. “L’elevata capacità inutilizzata globale (oltre 6 mb/d) e la nostra analisi storica delle interruzioni dell’approvvigionamento – si legge nello studio curato da Goldman Sachs – rafforzano la nostra opinione che le barriere fisiche o politiche all’impiego della capacità inutilizzata siano il principale rischio di coda al rialzo per i prezzi del petrolio. Facendo una media tra gli episodi, stimiamo che l’aumento della produzione combinata di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti compensi in genere l’80 percento della produzione interrotta entro due trimestri”. Al momento si tratta di previsioni. Quel che è certo è che dallo scorso aprile si è registrato un calo del prezzo del greggio che invece la scorsa settimana, dopo l’attacco iraniano di martedì ne cieli israeliani con circa 180 missili, ha guadagnato otto punti percentuali, la più alta crescita settimanale da gennaio 2023. La causa è stata geopolitica.
La posizione degli Stati uniti è stata espressa a chiare lettere, lo scorso venerdì, dal presidente Joe Biden che ha detto: “Se fossi nei loro panni (degli israeliani), penserei ad altre alternative piuttosto che a colpire i giacimenti petroliferi”.
Se è vero che per Israele non esiste una “zero option” (cioè l’ipotesi di non reazione dopo il secondo attacco iraniano in pochi mesi), mentre i fronti concentrici di Hezbollah, Hamas e Houthi restano ancora in piedi (seppur indeboliti), la peggiore delle ipotesi è che i due avversari – Tel Aviv e Teheran – entrino in una spirale interminabile di “retaliatory attacks”. Se Israele deve colpire, c’è da augurarsi che tale azione sia efficace e consenta di ripristinare la sua capacità di deterrenza, requisito indispensabile per assicurare la sopravvivenza dello Stato di Israele. C’è invece da scongiurare lo scenario di tensioni senza fine che alimenterebbero l’incertezza in un quadro geopolitico che appare destinato a mutare per sempre.