Avete presente la definizione di caos? Ecco, basta osservare la Libia all’indomani della rivoluzione del 2011 per farsene un’idea. Con la morte del colonnello Gheddafi, garanzia di stabilità e unione all’interno del paese, le diverse frange ribelli cominciarono a farsi la guerra. Tutti bramavano il potere, nessuno riusciva però ad ottenerlo. Il principio base che sostanzia la natura di uno Stato è uno e uno soltanto: detenere il monopolio della forza su una porzione di territorio. Ecco, i non-governi post-rivoluzionari non rientravano in questa categoria, la Libia si avviava verso il gruppo mondiale degli Stati falliti.
La libertà era costata cara, gli occidentali avevano fatto male i conti. Gli effetti dell’instabilità cronica libica furono e sono tuttora travolgenti. Aumento del numero degli sfollati, illegalità pervasiva nel paese, immigrazione clandestina alle stelle ma, soprattutto, un incremento dell’attività jihadista con la creazione dello Stato Islamico libico nella parte desertica meridionale. Gli impatti sull’Europa furono e sono devastanti, in particolare per l’Italia. Non solo avevamo perso un partner commerciale incredibilmente strategico, specialmente per l’approvvigionamento di idrocarburi ma, a causa della vicinanza con le coste nord-africane, siamo stati altresì i primi a dover fronteggiare la questione migratoria. Il destino di Lampedusa era segnato. Vedete, confinando con paesi tristemente noti per i colpi di Stato che da anni li segnano, in ordine sparso Sudan, Mali, Ciad, Niger, la Libia è divenuta negli anni un ricettacolo di migranti che, dal sud del Sahara attraversando il deserto, giungono stremati sulle coste del paese in cerca di una via di fuga verso l’Europa. Ora il Sudan è in guerra, nonostante la stampa sembra esserselo dimenticato, in Niger è avvenuto un cambio di regime da parte dei militari e la situazione è ormai sospesa da mesi, in Mali la presenza occidentale è pressoché inesistente e il terrorismo islamico destabilizza e semina paura nell’intera regione. Attraversare i porosi e poco controllati confini libici è sempre più facile, ecco perché l’instabilità nel paese rappresenta la minaccia più impellente che l’Europa deve affrontare.

Fu così, dunque, che nel 2016 le potenze straniere nominarono a capo del governo un politico di lunga data, Fayez al-Sarraj. Era stato investito di una missione impossibile: riunificare il paese e garantire una certa stabilità nelle diverse regioni che lo compongono. Compito ingrato questo, viste le lacerazioni tra la società, l’estensione della Libia e la totale perdita di controllo di una porzione piuttosto ampia dello Stato, il Fezzan, ormai nelle mani dei terroristi islamici. Tuttavia, proprio durante la presidenza di al-Serraj, l’Italia mise a segno un colpo. Poiché gli sbarchi in seguito alla rivoluzione e al disastroso cambio di regime non accennavano a diminuire, anzi, Roma sentì la necessità di sottoscrivere con il neo-costituito governo di Tripoli un Memorandum di intenti. In breve, venne pagato il governo libico per bloccare le partenze. E così accadde. Da un punto di vista di politica estera, un successo, gli sbarchi si dimezzarono. Da un punto di vista umano, un disastro. I migranti, dopo aver patito le peggiori atrocità, vennero e sono ancora rinchiusi in campi di concentramento, luoghi senza Dio, inferni sulla terra dove vengono ripetutamente abusati, torturati, talvolta uccisi. A niente sono serviti i reclami delle agenzie onusiane, dei comitati dei diritti umani, le inchieste giornalistiche. Tutti noi li abbiamo dimenticati poiché in fondo gli sbarchi sono pur sempre diminuiti, questo è l’importante. Ma a quale costo? Della dignità umana? E pensare che è stato proprio un governo di centro-sinistra a sottoscrivere l’accordo con al-Sarraj.

Nel frattempo, troppe erano le differenze tra Tripoli e la regione orientale, la Cirenaica che mal sopportava l’accentramento del potere tripolino. Già nel 2014 con un colpo di mano militare il generale Haftar aveva preso il controllo nell’est del paese e instaurato un governo parallelo nella città costiera di Tobruk. Nell’intento, però, fu aiutato da alcune potenze che tramavano nell’ombra. In ordine sparso, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti (EAU), ma soprattutto, la Madre Russia. È ormai appurata la presenza dei mercenari della Wagner in Cirenaica che hanno installato le loro basi operative vicine alle infrastrutture energetiche più importanti del paese. Per la brigata Wagner la Libia è in una posizione strategica, dal paese possono organizzare spedizioni militari verso gli Stati confinanti in cui la potenza destabilizzatrice della Russia è ormai diffusa. In Mali, Ciad, Sudan, Niger, l’influenza del Cremlino sta allargandosi a tutta l’area saheliana e sub-sahariana e il punto di partenza per la conquista del Sahel è stata negli anni proprio la Cirenaica. Da una parte, Mosca finanzia compagne di disinformazione che fanno gioco al regime di Haftar, dall’altra il generale si appoggia alla brigata per stabilizzare la regione militarmente ed esercitare un maggiore controllo sul suo territorio.
Nel 2021, tuttavia, gli occidentali mettono a segno un altro colpo. L’ONU media l’istituzione di un nuovo governo di unità nazionale a Tripoli affidandolo ad un imprenditore di lunga data, Abdul Dbeibeh. Oggi a Tripoli, Dbeibeh condivide il potere con l’Alto Consiglio Supremo guidato da Khaled Mishri, mentre in Cirenaica formalmente il potere è in capo alla Camera dei rappresentanti di Tobruk e al suo leader, Fathi Bashagha, sostanzialmente, però, governa Haftar. Come per una partita, le potenze straniere propendono per una o per l’altra squadra in base a dei puri calcoli economici, con la presenza di alcuni doppiogiochisti.

E così, la Turchia è la più grande garante del mantenimento dello status quo. Pensate che Ankara si è vista congelare un giro di affari per le sue aziende da ben 20 miliardi di dollari. Con l’inizio della guerra civile, tuttavia, tutto si è bloccato. Per questo la presenza economico-militare turca in Libia, in particolare in Tripolitania, è gradualmente aumentata. La speranza della Turchia è quella di sfruttare le risorse energetiche libiche, stipulando accordi per l’esplorazione dei fondali limitrofi con il governo retto da Dbeibeh. Ciononostante, è notizia di pochi mesi fa che la Corte d’Appello di Tripoli abbia bloccato un accordo con Ankara per lo sfruttamento del sottosuolo libico. Da un punto di vista politico invece, il discorso riguarda un certo revanscismo alla turca: quella un tempo era terra ottomana, e ottomana ritornerà.
Gli occidentali, abili equilibristi, supportano da un parte il governo di Tripoli tenendosi aperto, al contempo, anche un canale diretto con il generale. Sono consapevoli di dover far affari anche con lui, soprattutto per frenare l’avanzata russa nella regione. E così il direttore della CIA, Burns, si è da poco incontrato con Haftar in persona, intimandogli di chiudere i suoi rapporti con Mosca. Impossibile visto che la presenza russa non accenna a diminuire. E l’Italia? Basta dire che il gigante semi-pubblico Eni è il primo produttore di gas nel paese e il primo fornitore per il mercato domestico libico per comprendere quanto stretti siano i legami commerciali tra Roma e Tripoli (ed Haftar).
Nonostante tutto, in generale possiamo dire che il rischio di una guerra civile imminente sia poco probabile. Nel paese le tensioni sono sotto controllo. Questo per un solo motivo: il denaro. Grazie alla mediazione degli EAU, Dbeibeh e Haftar hanno trovato un accordo per suddividersi i proventi del petrolio. I giacimenti libici hanno ripreso a funzionare a pieno regime, per la gioia dei loro partner commerciali, e a capo della National Oil Corporation (NOC) libica è stato nominato Farhat Omar Bengdara, uomo di fiducia sia di Dbeibeh che del generale. Non solo, la Banca Centrale del paese ha presto elargito ben sei miliardi di dollari alla NOC che ha fornito a sua volta un prestito di un miliardo ad un’altra azienda petrolifera, la Agoco, di proprietà del generale. Si pensa che il denaro sia stato utilizzato dagli uomini di Haftar per pagare i mercenari della Wagner con i quali si erano indebitati. Questi, nel frattempo, si sono stanziati presso il più grande giacimento petrolifero libico, Sharara. È infatti ormai noto come in Cirenaica venga raffinato il greggio russo che viene poi rivenduto agli occidentali, aggirando in questo modo le sanzioni. Insomma, una situazione delicata ma fin quando c’è il denaro e il petrolio scorre tutti siamo felici. L’oro nero, il Re Mida che trasforma in prezioso tutto ciò che tocca.
Un altro attore si sta però inserendo nel teatro degli orrori libico: Israele. Diverse sono state le interlocuzioni, talvolta segrete come quella avvenuta a Roma, tra esponenti del governo israeliano e dei “governi” libici, Tripoli e Tobruk. Tale mossa si inserisce in una chiara strategia americana: legittimare Israele agli occhi di una coalizione sempre più ampia di stati arabi. L’obiettivo è una maggiore stabilizzazione di tutta l’area mediorientale. Quello che dicono gli americani Dbeibeh lo fa, pronto a tutto pur di essere supportato e, sopratutto, legittimato da Washington. Dall’altra parte, anche Haftar non disdegna. Israele lo rifornisce di armi e lo supporta diplomaticamente, merci di scambio che rendono Tel Aviv sempre più importante in un’area in cui veniva prima totalmente ostracizzata.
E dunque? Ci sarà mai un governo unitario? La Libia verrà mai governata nuovamente da un’unica autorità centrale? Di certo, fin quando non sarà promulgata una nuova costituzione e una nuova legge elettorale mi sembra difficile, mancano le basi. Tuttavia, propongo qualcosa. Ma perché, viste le differenze regionali, le 140 tribù, le tante rivalità, non convocare un’assembla costituente formata da un esponente per ciascun rappresentante regionale? Così facendo, l’assemblea potrebbe promulgare una nuova costituzione per dare al paese un tipo di governo presidenziale-federale, di modo che le tre regioni continuino ad essere amministrate internamente dai loro governatori in totale autonomia. Questi siederebbero nel Senato della Repubblica a rappresentanza dei loro molteplici interessi territoriali. Dovrebbe essere poi eletto un Presidente federale che faccia la sintesi tra le diverse istanze e rappresenti il paese all’estero. Un’utopia? Chissà… Certo è che bisogna trovare una soluzione al più presto. Il tempo scorre e il popolo non aspetta. Abbiamo il dovere di supportarli, economicamente e politicamente, con un piano comune europeo, sopratutto dopo l’instabilità che anche noi occidentali abbiamo contribuito a creare. Svegliatevi! La Libia è una questione di sicurezza nazionale.