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Pontificia fonderia Marinelli, ventisei generazioni di campanari

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Velasco25 Articolo

Da piccolo Armando Marinelli andava in fonderia a giocare con suo fratello Pasquale. ‘I grandi’ li mandavano via. “Basta con questo baccano”. Che per un posto in cui si realizzano campane – e si provano rintocchi dal mattino alla sera – pare un ossimoro. “Prima di noi erano stati rimproverati mio padre e mio zio dai nostri nonni. Dopo siamo stati io e Pasquale a cacciare i nostri figli”.

Il fatto è che quando cresci in un luogo come la Pontificia fonderia di campane Marinelli, in un comune di pochi abitanti della provincia di Isernia, ad Agnone, in Molise, sradicarsi da quello che all’inizio è un semplice spazio in cui curiosare, meravigliarsi, apprendere, diventa difficile. Ti rifugi tra la legna da ardere accatastata, le placche di gesso di Madonne e Santi appese sulle pareti. E qui ti appassioni, incondizionatamente. “Forse il segreto di un’azienda a conduzione familiare tanto longeva, la più antica fonderia italiana, la seconda al mondo, fino ad ora è stato questo”, sorride con la voce di chi sta confidando un segreto, Armando. “Vivere la fonderia come una febbre che arriva all’improvviso e da cui non si guarisce. Una febbre buona. Si comincia per gioco, poi diventa tutto vero”.

Pasquale ed Ettore Marinelli al lavoro nella fonderia

La fonderia Marinelli realizza campane con lo stesso metodo da 26 generazioni. Tre bicchieri, impilati e capovolti uno sull’altro. In fondo l’anima, al centro il bronzo e sopra al bronzo il mantello. “Spiegata così è facile. Nella pratica, ci vogliono almeno tre mesi”, dice Marinelli che prova a far capire per immagini quanto tempo – e quanta pazienza – occorra nelle varie fasi di lavorazione di una campana.

“Adesso è possibile comprare materiali nuovi, utilizzare macchinari moderni. Fondere meccanicamente. Ma l’anima delle nostre campane è rimasta quella della famiglia Marinelli dell’anno 1000”.

L’anima è la parte più interna della campana, che riproduce la cavità del pezzo. Su questo profilo, chiamato anche maschio, si sovrappongono diversi strati d’argilla fino a ottenere la ‘camicia’: una falsa campana. L’ultimo strato, il mantello, è collocato sull’anima lasciando un’intercapedine per la fusione del bronzo.

“La fusione, secondo il procedimento antico, coincide con il momento della preghiera”, spiega Marinelli. “Arriva il parroco, si benedice il forno, si leggono alcuni passi del Vangelo. Il bronzo incandescente a 200 gradi entra nelle forme ed è una fase delicatissima. Un minimo errore rischia di vanificare tutto”.

Fino al dopoguerra le campane venivano fatte sotto i campanili. La fonderia ha realizzato concerti di campane importanti come quello del Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, le campane della cattedrale di Buenos Aires e la campana del Giubileo del 2000 ‘Giovannea’, commissionata da papa Giovanni Paolo II. “A Pompei”, racconta Marinelli “il mio bisnonno è rimasto sei anni. In quell’occasione ha conosciuto Papa Pio XI, che nel 1924 ci ha concesso lo stemma pontificio, perché potessimo rappresentarlo nel volto delle campane che continuavamo a fondere copiosamente”.

Se c’è stata un’evoluzione negli anni riguarda proprio la possibilità di produrre le campane direttamente in fonderia. “Io e mio fratello non abbiamo mai fuso fuori porta. Ma quando accadeva”, ricorda Marinelli ripensando alle storie di altri “la gente gettava catenine, orecchini, fedi nuziali nel bronzo per avere qualcosa di sé su uno dei punti più alti della città. Ecco perché in molte campane c’è l’oro”.

Altre piccole rivoluzioni, naturalmente, ci sono state: le funi a mano, ad esempio, non le tira più nessuno. Il battaglio ormai si muove autonomamente. La parola innovazione però, un po’ Marinelli la teme.

“Produciamo 50 campane all’anno. Ne esportiamo altrettante e ovunque, soprattutto in America. Sono poche, ma richiedono zelo. La tecnologia renderebbe il lavoro più facile, ma cambiare una tradizione in un Paese che valorizza l’antica arte del vecchio mondo, sarebbe quasi immorale”.

I giovani, crede Marinelli, sono sempre più orientati verso studi che “accantonano la manualità”. Non sa se i suoi figli continueranno in fonderia. Ma se lo faranno (e il secondogenito ha già preso le redini della direzione del museo che raccoglie le storie delle campane, 40.000 visitatori nel 2022), è consapevole che anche questo lavoro potrebbe trasformarsi.

La più grande scoperta, comunque, Marinelli l’ha fatta da bambino. “Il suono della campana dipende dalla forma. Mio nonno, che si chiamava come me, disegnava la sagoma della campana nascosto in una stanza alla presenza soltanto di mio padre e mio zio. Era il segreto dei campanari. Io mio nonno non l’ho mai conosciuto. Ma oggi che quella forma la disegno anch’io, so che il suono di ogni nostra campana è lo stesso che ascoltava lui”.

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