GILEAD
Leadership Heade
Cerca
Close this search box.

2018, qualcosa è veramente cambiato

E’ iniziato con una ripresa, modesta ma solida, è finito con una nuova brusca frenata e lo spettro di una nuova crisi. E’ iniziato con una lunga campagna elettorale, è finito con il governo giallo-verde padrone della scena. Le imprese, grandi e piccole, hanno dovuto fare i conti con problemi e ostacoli che pensavano definitivamente messi alle spalle. Il mondo del lavoro continua a vivere soprattutto di incertezza e di prospettive di tagli. C’era Sergio Marchionne al timone di Fca, ora uno dei manager più influenti della storia non c’è più. Il 2018 è stato un anno intenso, in cui qualcosa è veramente cambiato. Almeno per ora, però, le ambizioni del ‘governo del cambiamento’, quello fondato sul contratto firmato dall’alleanza M5S-Lega, hanno prodotto passi indietro piuttosto che in avanti.

Uno dei piani di lettura possibili, per analizzare un anno di politica ed economia mai così legate tra loro, è quello della distanza sempre maggiore tra narrazione e realtà. Una dialettica resa ancora più evidente dalla colpevole e prolungata latitanza di qualsiasi opposizione politica. Perché l’altro dato significativo è che, al netto di qualche oscillazione fisiologica, il consenso del Paese verso questa maggioranza è ancora schiacciante.

In questo scenario, a fare da contraltare alla propaganda di governo, anche legittima, sono le analisi delle Istituzioni indipendenti e delle Autorità di controllo, insieme ai dati ufficiali che fanno da argine al fiume, sempre più ingrossato, delle parole. Si confrontano l’immagine di una pagina con una serie di associazioni tra promesse fatte e (presunti) risultati raggiunti, copyright vicepremier Luigi Di Maio, e le pagine firmate Fmi, Bce, Bankitalia, Upb, Inps, Istat. Ultima plastica rappresentazione di questo confronto, la stima sull’aumento della pressione fiscale diffusa dall’Ufficio parlamentare di bilancio, salirà nel 2019 al 42,4% del Pil dal 42% del 2018, e la replica del premier Giuseppe Conte: la pressione fiscale “scende per i cittadini”, sostiene, aggiungendo l’invito emblematico a “non guardare i saldi finali”.

L’altro filo conduttore dell’anno è stata la sistematica elezione di un nemico da dare in pasto all’opinione pubblica. I più gettonati sono stati i poteri forti, i giornalisti e, soprattutto, l’Unione europea. Difficile il rapporto con le banche e con le imprese, prima aperte al confronto e poi scottate dall’assenza di dialogo, che hanno preso posizione contro una manovra che hanno bollato come ‘punitiva’ per alcuni aspetti e, soprattutto, ‘recessiva’ per il mancato sostegno alla crescita. Rimarranno nella storia del 2018 gli scontri, alimentati prevalentemente via social, con la stampa: dalle “puttane” di Alessandro Di Battista agli “sciacalli” di Di Maio, fino ai tagli all’editoria e all’invito del premier ad “andare sul mercato” che presuppone la fine di testate storiche, inevitabilmente legate ai finanziamenti per il pluralismo.

Un capitolo a parte meritano i rapporti con Bruxelles. La sfida alle regole e ai vincoli comunitari parte dalle promesse della campagna elettorale, che hanno cavalcato la protesta nata dalla gestione degli anni difficili della crisi. Poi si è tradotta nella scrittura di una Nota di aggiornamento al Def di totale rottura. Nonostante le resistenze del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il target del rapporto deficit/pil 2019 è stato fissato al 2,4%, con un peggioramento strutturale consistente, e la stima del pil 2019 all’1,5%, contro le indicazioni di tutti i previsori. Un margine, quello sul deficit, indispensabile per finanziare le misure di bandiera delle due forze politiche al governo: reddito di cittadinanza, quota 100 per le pensioni, un accenno di flat tax per gli autonomi.

Sono seguiti due mesi riempiti di accuse, polemiche e attacchi agli uomini delle istituzioni europee e scanditi dalla salita dello spread tra Btp e Bund, rimasto stabilmente sopra la soglia dei 300 punti. Numeri che si sono tradotti, tra l’altro, in miliardi di euro bruciati sui mercati e nelle perdite accusate da chi aveva in portafoglio titoli di Stato italiani, aumento dell’incertezza e conseguente frenata degli investimenti e della crescita. Alla fine, quando la minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione è diventata un’imminente certezza, è arrivata la decisione di tornare indietro, fissando il deficit al 2,04%, con un’assonanza al 2,4% chiaramente suggerita dalla peggiore propaganda. Una scelta tardiva, e tormentata, maturata dopo una decisa presa di posizione del Quirinale e dopo i segnali di chiara sofferenza arrivati soprattutto dall’elettorato leghista radicato nel tessuto produttivo.

Il cambio di rotta ha comportato la riscrittura della manovra e la compressione dei tempi dei lavori parlamentari che, nonostante le proteste delle opposizioni, hanno ridotto Camera e Senato al rango di uffici utili solo per la ratifica. In estrema sintesi, arrivano: lo stop agli aumenti Iva per il 2019, il taglio delle pensioni più alte, l’estensione dell’aliquota agevolata per le partite Iva, gli sconti per l’acquisto di veicoli a basse emissioni. Restano fuori, ma sono già finanziati, il reddito di cittadinanza e quota 100. C’è anche una pesante eredità che si scarica sul prossimo anno: nel 2020, soltanto per impedire nuovi aumenti dell’Iva, il governo dovrà trovare oltre 23 miliardi di euro.

L’approvazione della legge di bilancio il 30 dicembre, con l’unico precedente di voto finale dopo Natale che risale a quindici anni fa, chiude un anno che lascia almeno una speranza: che qualcosa possa cambiare, questa volta in positivo, nel 2019.

 

Leadership Forum
Paideia

Leggi anche

Ultima ora

ABBIAMO UN'OFFERTA PER TE

€2 per 1 mese di Fortune

Oltre 100 articoli in anteprima di business ed economia ogni mese

Approfittane ora per ottenere in esclusiva:

Fortune è un marchio Fortune Media IP Limited usato sotto licenza.