“Con dignità ma come ogni cristiano”, così ha chiesto di essere sepolto Papa Francesco. Nelle ultime volontà del Santo Padre si ritrova la cifra del suo pontificato: Bergoglio è stato il pastore degli ultimi. In occasione dell’addio al primo pontefice gesuita, primo sudamericano e primo appellatosi Francesco, non assisteremo all’esposizione del corpo sul catafalco, non ci saranno la doppia veglia né la tripla bara, niente titoli magniloquenti e orpelli vari.
Saranno celebrazioni all’insegna della sobrietà, com’è stato sobrio lo stile di un Papa “venuto dalla fine del mondo”, abituato a muoversi a bordo di una utilitaria, con indosso un paio di vecchie scarpe ortopediche al posto di quelle rosse. Papa Francesco si recava dall’ottico a piedi e all’Appartamento, quello all’ultimo piano delle logge di Raffaello, aveva preferito Santa Marta, un residence.
Bergoglio non è stato un rivoluzionario, non ha innovato la dottrina, forse perché consapevole che spingere oltre un certo limite avrebbe provocato un nuovo scisma nella Chiesa (in ogni caso, una frattura profonda). Ha innovato però il linguaggio, gli argomenti, lo stile del papato. Con una stella polare: essere dalla parte degli ultimi, degli emarginati, degli “scarti”.
La Chiesa di Papa Francesco si è riscoperta ecumenica e globale, si può dire che il Papa più critico verso la globalizzazione e gli eccessi del libero mercato è stato colui che ha globalizzato la Chiesa più di ogni altro. Da qui le numerosissime missioni all’estero, nei luoghi più remoti e desolati, insieme allo sforzo di far vivere la Chiesa evangelica in ogni posto, promuovendo i vescovi delle periferie del mondo.
Non è un caso che nel Conclave che eleggerà il successore sotto gli affreschi della Cappella Sistina per la prima volta ci saranno i rappresentanti provenienti da 65 Paesi di tutti i continenti. Dei 138 cardinali che si chiuderanno in Conclave (dal latino “cum clave”, sottochiave), ben 110 sono stati nominati da Bergoglio con un occhio al Sud globale. Il risultato è una Chiesa sempre meno eurocentrica e occidentale: sebbene gli europei continuino a rappresentare la maggioranza relativa (54), gli elettori dell’Asia (24), dell’America latina (22), dell’Africa (18) e pure dell’Oceania (4) risulteranno determinanti quanto i cardinali del Vecchio Continente e dell’America del Nord (16).
Va anche detto che per la prima volta nella storia della Chiesa il vescovo di Milano e il Patriarca di Venezia non sono cardinali elettori, la spia di un pregiudizio che ha segnato i dodici anni del pontificato bergogliano.
Bergoglio non era un tifoso dell’Occidente, al contrario non ha mai smesso di segnalarne le storture e i pericoli, non ha mai smesso di manifestare la necessità di aprirsi al mondo, ben più grande dell’Europa, non ha mai smesso di ribadire i capisaldi di una linea terzomondista, sensibile alle sirene dei no global, favorevole all’accoglienza e alle frontiere aperte, una linea di apertura verso Oriente e Cina, diffidente con la Nato e critica del predominio Usa.
Non sorprende perciò il tributo che gli riserva il presidente russo Putin che parla di un “coerente difensore degli alti valori dell’umanesimo e della giustizia” (Bergoglio, in una intervista al Corriere, afferma che la Nato, con l’allargamento a est, stava “abbaiando alla porta della Russia”). Non sorprende neanche il silenzio del premier israeliano Netanyahu a cui fa da contraltare il cordoglio espresso dal presidente iraniano Pezeshkian che elogia pubblicamente la sua “condanna del genocidio commesso dal regime israeliano a Gaza”. E proprio l’uso della parola “genocidio” da parte di Bergoglio ha scavato un solco profondo con la comunità ebraica che toccherà al suo successore riparare.
Dalla spiaggia di Rio a Timor est, dalla Papua Nuova Guinea al Perù, Papa Francesco si è speso in prima persona in una serie interminabile di missioni, 47 viaggi apostolici attraversando 66 Paesi, quaranta visite pastorali in 49 città italiane, 201 visite da vescovo nella diocesi capitolina. “Una cosa è osservare la realtà dal centro, un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato”, diceva Papa Francesco.
Scelse la minuscola Lampedusa per la prima uscita da Roma, la marginale Albania per la prima trasferta in Europa, il dimenticato Centrafrica come “capitale spirituale del mondo”. Non è potuto andare in Cina dove voleva recarsi, il tempo e la salute non glielo hanno concesso. All’indomani della sua dipartita, i media cinesi quasi ignorano l’evento. Il “ritorno del Papa alla casa del Padre” finisce tra le news in breve sui giornali in lingua cinese e in inglese (dunque rivolti ai lettori stranieri), il regime non sembra ricambiare la simpatia che il Papa invece aveva mostrato per Pechino arrivando a siglare un accordo per regolare le relazioni difficili tra il Vaticano e la Repubblica popolare.
Il presidente Usa Trump annuncia invece che sabato parteciperà ai funerali a Roma insieme alla moglie, mettendo da parte le divergenze manifestate in vita (soprattutto sulla gestione dei migranti), la stampa americana dà spazio alla notizia con note positive, a parte il Wall Street Journal, critico verso la retorica anticapitalistica di un Papa che ha “creduto a ideologie che lasciano i poveri in povertà”. Questa è stata senza dubbio una delle contraddizioni del pontificato bergogliano: si può invocare una Chiesa “ecumenica” nella povertà? Una “Chiesa povera per i poveri”, come diceva Bergoglio, è in grado di aiutare gli ultimi?
Papa Francesco resta, in sostanza, una figura enigmatica, forse il pontefice che serviva dopo gli anni di ortodossia dottrinale di Papa Benedetto XVI, uomo agli antipodi per formazione e personalità. Diretto e affabile l’argentino, algido e distante il tedesco. La distanza tra i due, in una situazione del tutto eccezionale nella storia della Chiesa, è stata accentuata soprattutto dalle opposte tifoserie. Bergoglio non ha cambiato la Chiesa ma ha segnato un cambio d’epoca. Ciò che verrà dopo di lui non potrà somigliare a nulla di già visto.