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Il trumpismo dei dazi e la sfida per Italia ed Europa

Donald Trump annuncia i dazi presso il Rose Garden della Casa Bianca.
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Velasco25 Articolo

Poteva andarci peggio. Le Borse non apprezzano, le cancellerie di mezzo mondo si mobilitano, a Bruxelles è tutto un lavorio di stime e proiezioni per individuare la risposta più adeguata alla “world war fee”, come l’ha titolata il New York Post, annunciata ieri da Donald Trump nel Giardino delle Rose della Casa bianca.

Nel suo comizio show, in cui ha annunciato il “Liberation Day to make America wealthy again”, Trump ha preso di mira i Paesi, amici e nemici, che sono diventati ricchi e prosperi a spese degli americani. Di buono c’è che rispetto alle cifre ventilate negli scorsi giorni, il “200 percento” di tariffe doganali, contro l’Europa c’è uno zero in meno.

Quello dei dazi è un antico cavallo di battaglia trumpiano, uno schiaffo alla globalizzazione che fa parte della “weltanschauung” sua e del Maga, niente che i funzionari di Bruxelles non potessero prevedere con largo anticipo già dall’inizio della sua seconda discesa in campo: con Trump sarebbe tornato il protezionismo economico, lo stesso del suo first term, la visione cioè che il disavanzo della bilancia commerciale Usa rappresenti un’enorme ingiustizia, a danno di lavoratori e imprese americani, da “vendicare” con un nuovo corso.

Ed è difficile non trovare un senso alle parole di Trump quando spiega che sulle auto prodotte all’estero gli Usa impongono un dazio del 2,5 percento, mentre le auto americane importate in Europa subiscono un dazio del 10 percento cui si aggiunge l’Iva al 20 percento. Le barriere commerciali esistono, e l’America di Trump vuole risolvere la questione.

I metodi sono “tough”, Trump-style, ma va detto che i dazi del suo primo mandato furono in gran parte conservati e in certi casi innalzati dal successore, Joe Biden. Colpisce che dalla lista dei “dazi reciproci” ci sia un grande assente, la Russia.

La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha spiegato ad Axios che la Russia è stata esclusa perché le sanzioni americane “precludono già qualsiasi scambio commerciale significativo”.

Il valore del commercio tra Washington e Mosca è crollato da circa 35 miliardi di dollari nel 2021 a 3,5 miliardi di dollari l’anno scorso a causa delle sanzioni imposte per l’invasione dell’Ucraina, e tuttavia ci sono ancora più scambi economici con la Russia che con paesi come Mauritius o Brunei che invece compaiono nella lista dei dazi di Trump.

Ora la domanda è che farà l’Europa? Il tempo del lungo sonno si è esaurito: come sulla difesa, il ‘trumpismo senza limitismo’ impone all’Europa di svegliarsi dal torpore che ha portato, in questi anni, a una sostanziale paralisi politica rispetto a questioni cruciali per il futuro e la prosperità dei cittadini europei. Il primo mandato di Ursula von der Leyen ha azzoppato la competitività delle imprese europee in nome dell’ideologico Green Deal, non a caso ribattezzato, in questo second term, Clean Industrial Act.

La parola “industria” non è più una bestemmia. Adesso, con il ritiro americano già ampiamente annunciato almeno dai tempi di Barack Obama, l’Europa lancia un piano per il riarmo da ottocento miliardi (che, alla prova dei fatti, saranno assai meno ma è un passo avanti).

Sui dazi, una risposta fondata sulla “retaliation” renderebbe gli effetti ancora più dannosi: secondo i calcoli della Banca centrale europea, con i dazi americani al 25 percento si registrerebbe un calo della crescita della zona euro dello 0,3 percento, in caso di analoghe contromisure la perdita di Pil raggiungerebbe il mezzo punto percentuale.

È anche per questo che il presidente del Consiglio Giorgia Meloni consiglia prudenza. Non conviene alzare i toni, la guerra commerciale va scongiurata, meglio sedersi al tavolo e negoziare per ottenere deroghe ed esenzioni.

Del resto, Trump è un dealmaker, un uomo d’affari con la propensione al negoziato, ai suoi occhi i dazi sono la pistola sul tavolo per ottenere concessioni dagli interlocutori. Gli Usa non vogliono che le Big Tech americane subiscano contromisure, anzi ritengono che l’Europa le tratti già malissimo a colpi di regolamenti e balzelli di ogni genere.

La visita del vicepresidente JD Vance in Italia, a partire dal prossimo 18 aprile, sarà l’occasione per parlare (anche) di dazi. Vance sarà accolto a Palazzo Chigi dalla premier Meloni, probabilmente insieme ai due vice, e in quella occasione si potranno far valere i buoni rapporti tra i nostri Paesi. Se è vero che il commercio estero è una competenza dell’Ue (oggi a Bruxelles il vicepremier Antonio Tajani incontra il commissario al commercio Sefcovic), è anche prevedibile che ogni Paese proverà, nei limiti del possibile, a spuntare condizioni più favorevoli per determinati prodotti e filiere azionando anche canali bilaterali.

È un po’ il segreto di Pulcinella, non si può dire ma, allo stato delle cose, è uno scenario inevitabile. Tanto più con un presidente, Trump, che non ha mai incontrato Ursula von der Leyen e considera l’Europa un’espressione geografica, non certo un attore politico coeso né un interlocutore credibile.

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