Il “Chatgate”, com’è stato ribattezzato, è il primo vero incidente dell’amministrazione Trump. A dispetto dei tentativi di ridimensionare il caso, la vicenda è di una gravità inaudita: un giornalista non può finire nelle chat tra i vertici dell’amministrazione e del Pentagono in cui si pianifica un imminente attacco armato.
Colloqui di questa portata dovrebbero sempre avvenire attraverso canali istituzionali protetti, non sulla piattaforma Signal, con un Consigliere per la Sicurezza nazionale, Mike Waltz, che inserisce personalmente nel gruppo i singoli partecipanti, uno ad uno, e accidentalmente aggiunge il direttore della rivista The Atlantic (peraltro tutt’altro che amico dell’attuale amministrazione).
Al di là dei tentativi di minimizzare, pare che Donald Trump si sia infuriato con i suoi: in pubblico, ha scandito che Waltz è un “brav’uomo”, in privato gli avrebbe dato dello “stupido” per il fatto di aver registrato nella propria rubrica telefonica il contatto del giornalista ostile.
Dalle chat pubblicate abbiamo scoperto che il vicepresidente JD Vance talvolta si discosta dalla linea del presidente e lo fa presente ai suoi interlocutori (“Non sono sicuro che il presidente si renda pienamente conto…”, dice Vance a proposito della decisione del POTUS di colpire gli obiettivi degli Houthi nel Mar Nero).
Abbiamo poi scoperto che per Vance, come per il segretario alla Difesa Pete Hegseth, gli europei sono e restano degli “scrocconi”, meritevoli di disprezzo, perché ogni volta dobbiamo aiutarli ma agli americani non importa nulla del canale di Suez dal quale passa solo il 3 percento del commercio Usa e il 40 percento del traffico è europeo.
Il terzo elemento è che la “diplomazia del telefonino” rischia di lasciare molte vittime sul campo: sempre di più, in modo irrituale e incauto, i Grandi del mondo si parlano usando il cellulare privato, con conseguenze potenzialmente dannose per la sicurezza nazionale. Se per errore un giornalista finisce nella conversazione in cui si trasmettono piani di guerra, è possibile che vi riescano ad accedere servizi di spionaggio nemici, mettendo a repentaglio la vita dei militari sul campo.
Pochi giorni fa, abbiamo visto il presidente ucraino Zelensky, nel corso di una conferenza stampa, interrompersi allo squillo del suo telefonino per rispondere al telefono a “Emmanuel”: “Ora sono impegnato, ti chiamo dopo”, il messaggio all’omologo francese davanti ai cronisti spiazzati da cotanta disinvoltura.
Ci si parla via smartphone, si mandano i messaggini, conditi anche da emoticon. Questa confidenzialità negli scambi diretti tra leader rende i sistemi di sicurezza incredibilmente vulnerabili.
Ci sono poi i casi in cui sembra esserci lo zampino del “deep state”: per esempio, nella propalazione pubblica dei dati sensibili – numeri di cellulare, indirizzi e-mail e password – di personalità chiave dell’amministrazione Usa, documentata in un’inchiesta del settimanale tedesco “Der Spiegel”.
Nella retata dei nomi finiti nel web, compaiono, di nuovo, il Consigliere per la sicurezza Waltz, la direttrice dell’intelligence nazionale Usa Tulsi Gabbard e il segretario alla Difesa Hegseth.
Pare che molti di questi numeri e account non fossero più in uso da tempo e tuttavia il sospetto di un’“imboscata” rimane.
Non è mistero che il repulisti nelle agenzie di sicurezza e i licenziamenti imposti dal Doge abbiano provocato un diffuso malcontento in diversi settori dell’amministrazione Usa. Anche in questo caso tocca fare i conti con minacce invisibili, non per questo meno concrete.