In questa autentica psicosi da dazi, le intenzioni minacciose di Donald Trump e il 2 aprile che si avvicina (“sarà il giorno della liberazione nazionale”, ha scandito il presidente americano) provocano già i primi effetti: è partita la corsa dei grandi esportatori globali a recapitare le loro merci oltreoceano prima del D-day, il giorno di entrata in vigore dei balzelli reciproci.
Dai vini francesi e italiani alle auto europee e asiatiche fino ai semilavorati che servono alle aziende americane: nelle ultime settimane il traffico di container verso i porti statunitensi è letteralmente esploso.
Risultato? Con ogni probabilità il deficit commerciale americano raggiungerà cifre da record nel primo trimestre di quest’anno, a tutto vantaggio delle aziende straniere esportatrici.
Secondo il Financial times, le spedizioni di veicoli dall’Europa agli Usa sono aumentate del 22 percento rispetto allo stesso mese del 2024, quelle dal Giappone del 14 percento, quelle dalla Corea del Sud del 15.
E i numeri sarebbero financo maggiori se non fosse che la disponibilità di navi cargo è limitata, e la tratta via mare richiede almeno due settimane. Nel settore agroalimentare le cose non vanno meglio, anzi in questo caso la corsa alle scorte sarebbe iniziata subito dopo la rielezione di Trump. Secondo l’Unione italiana vini, lo scorso novembre l’export di spumanti italiani verso gli States è cresciuto del 41 percento in volume.
I dazi di Trump producono dunque un effetto boomerang: nel breve periodo, il deficit commerciale americano è destinato a toccare i massimi storici. Nel mese di gennaio, il disavanzo ha raggiunto i 131,4 miliardi, il 34 percento in più rispetto a dicembre.
Non sappiamo se nel lungo periodo la ricetta trumpiana riuscirà invece a ripianare la bilancia commerciale. Sul punto la maggior parte degli economisti europei dà una versione allarmista evidenziando il danno per le imprese del Vecchio Continente: può essere che abbiano ragione ma può anche essere che l’Apocalisse sia di là da venire.
I dazi li abbiamo già sperimentati, e siamo ancora vivi. Già nel 2018 Trump scatenò una prima raffica di dazi, argomento che ha sempre fatto breccia nel suo elettorato, sin dalla prima campagna per le presidenziali.
L’amministrazione Biden non ritenne opportuno eliminarli, quasi mai; anzi in certi settori e contro certi Paesi (la Cina, e anche l’Italia dell’alluminio e dell’acciaio) Biden decise di aumentare il balzello per scoraggiare l’import.
Ciò non ha danneggiato la crescita americana né ha impedito l’aumento dei posti di lavoro. L’inflazione, che ha penalizzato i democratici alle ultime presidenziali, è esplosa molto più tardi dei dazi e ha più a che fare con le conseguenze della pandemia.
Come ha ricordato Federico Rampini sul Corriere della sera, le radici profonde del trumpismo ricalcano la posizione protezionista dell’industriale Rosse Perot, fiero avversario del trattato di libero scambio Nafta (con Canada e Messico) ai tempi di George Bush sr. e di Bill Clinton.
Negli anni Novanta l’ideologia globalista prometteva alla classe operaria una nuova “età dell’oro” grazie all’apertura delle frontiere, al libero scambio di merci e all’immigrazione. Le cose sono andate diversamente: interi settori industriali sono stati di fatto smantellati, i ceti meno abbienti hanno patito le conseguenze dell’immigrazione incontrollata (non a caso, il second term trumpiano è stato reso possibile anche dal consenso crescente riscosso al candidato repubblicano tra latinos e afroamericani).
Per l’Europa una guerra commerciale a forza di dazi e contromisure, ritorsioni e rappresaglie, potrebbe essere assai dannosa, soprattutto per le economie manifatturiere votate all’export (Italia in testa). E tuttavia potrebbero stagliarsi anche opportunità impreviste.
L’Europa rappresenta pur sempre un mercato di 450 milioni di consumatori, e non è da trascurare il fatto che noi europei esportiamo molto più vino di quanto sia il whisky importato. Donald Trump è un uomo di business, i dazi sono la sua pistola sul tavolo del negoziato.
Dobbiamo dirci chiaramente che i singoli Paesi europei potrebbero spuntare condizioni più vantaggiose in un’ottica bilaterale con gli Usa. Trump non riconosce l’Europa come entità politica, non ha mai incontrato Ursula von der Leyen e probabilmente mai lo farà, per dirla semplice il presidente Usa se ne infischia che il commercio internazionale sia, a rigor di trattato, una competenza europea.
Toccherà accreditarsi abilmente con Washington e negoziare, come partner affidabile e offrendo qualcosa come contropartita. L’Italia parte favorita per il rapporto speciale già instaurato dalla presidente Giorgia Meloni con l’inquilino della Casa bianca, adesso deve giocarsi questa partita, senza allarmismi ma con pragmatismo.