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Gender pay gap: il divario salariale tra uomini e donne è del 20%

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Velasco25 Articolo

Se ne parla da ormai decenni, si mettono in moto iniziative per sensibilizzare la società, si evidenziano numeri che dovrebbero far riflettere, eppure, il gender gap continua ad essere un elefante più che presente nella stanza del nostro Paese.

La condizione di svantaggio che le donne, infatti, hanno nel mercato del lavoro in Italia è stata rimarcata, ancora una volta, anche dall’Inps con il suo Rendiconto di genere presentato dal Consiglio di indirizzo e vigilanza.

Secondo il report, il tasso di occupazione femminile si fermerebbe al 52,5%, ben 18 punti al di sotto di quello maschile.

Il gender gap nella qualità occupazionale e negli stipendi

E se non bastasse, le donne sono anche quelle che subiscono con più incidenza l’instabilità occupazionale. Solo il 18% delle assunzioni a tempo indeterminato viene attribuito ad una donna a fronte del 22,6% ottenuto dagli uomini.

Anche il tipo di lavoro cambia palesemente tra i due sessi, le lavoratrici che sottoscrivono contratti part time involontari sono il 64,4% del totale, tre volte il valore riscontrato dagli uomini, rappresentando ben il 15,6% degli occupati. La controparte solo il 5,1%.

Non va meglio nemmeno se si va ad analizzare la qualità degli stipendi. La retribuzione media giornaliera femminile risulta, nel nostro Paese, inferiore di circa il 20% rispetto a quella dei colleghi maschi. E in tutti i comparti economici (tranne quello delle estrazioni di minerali da cave e miniere) il divario è lampante.

La situazione nel settore privato

“Nello specifico- scrive l’istituto previdenziale focalizzandosi sul contesto del mercato privato- in dieci settori su diciotto le donne percepiscono più del 20% in meno; nelle attività finanziarie e assicurative mediamente il 32,1% in meno, nelle attività professionali scientifiche e tecniche il 35,1% in meno e in quelle immobiliari il 39,9% in meno.”

Il divario di genere nel pubblico

Lievemente meno dolente è il divario di genere che emerge nel settore pubblico, dove comunque nel servizio sanitario, Università ed Enti di ricerca, la busta paga di una donna è più leggera del 20% rispetto a quella di un uomo.

Donne che ad oggi risultano vantare livelli di istruzione superiori sia tra i diplomati ( 52,6%) sia tra i laureati (59,9%). Un merito che, frequentemente invece di agevolarle nell’impiego, le rende “sovra istruite” rispetto alle mansioni ricoperte e ancora più spesso lontane dal raggiungere posizioni apicali.

Solo il 21% invero è ad oggi dirigente e il 32,4% fa parte dei quadri di un’azienda.

“Sono dati che conosciamo e che ci danno una fotografia ben precisa, che contraddice la narrazione autoassolutoria e consolante secondo cui abbiamo risolto il problema”, ci spiega Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica presso l’Università Unitelma Sapienza di Roma e direttrice della School of gender economics.

“Inoltre sono dati che ci fanno anche arrabbiare, perché sono stabili da anni. Tra i fattori che contribuiscono a questo dislivello enorme c’è il tema della maternità e della cura, che in generale viene fornita gratuitamente dalle donne, e poi quello degli stereotipi che si manifestano a tutti i livelli della nostra società”, ci spiega Rinaldi.

L’influenza degli stereotipi di genere

“Come emerge dal rapporto delle Nazioni Unite Social Gender Norms Index, questi ultimi sono purtroppo molto radicati, non solo nel nostro Paese, ma a livello globale. Su un campione che abbraccia l’85% della popolazione mondiale, il 91% degli intervistati riconosce che le sue scelte, i suoi commenti e le sue decisioni sono influenzate dagli stereotipi di genere. Il 46%, inoltre, ritiene che gli uomini siano più bravi a lavorare rispetto alle donne. Il 43%, addirittura, pensa che questi abbiano più diritto a un lavoro rispetto alle donne. Ciò per dire che esiste un tema culturale mondiale dove ancora persiste l’equazione donna = madre. Da noi, inoltre, c’è un problema che alimenta questo stereotipo: la carenza di servizi adeguati, infatti, aggrava ulteriormente la situazione. Sostenere le famiglie e in particolare le madri, con politiche che permettano un reale equilibrio tra vita privata e lavoro, potrebbe essere una delle chiavi per affrontare tale disuguaglianza. Un esempio importante- conclude Rinaldi- potrebbe essere l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio nella stessa durata di quello di maternità. Applicarlo aiuterebbe anche il processo di selezione delle risorse, rendendolo più equo e meritocratico nella scelta. Questo è già realtà in Finlandia, in Svezia, e da oltre due anni anche in Spagna, che ad oggi vanta un tasso di crescita del Pil da noi ancora lontano facendoci capire che non è vero che se punti sui diritti lo fai a discapito della crescita economica, piuttosto spesso è il contrario”.

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