Intercettare i primi segnali spia del ‘ladro dei ricordi’, in modo da cercare di arrestare o rallentare il cammino dell’Alzheimer, utilizzando gli approcci oggi disponibili. Il tutto grazie a otto parametri in grado di consentire ai neurologi di prevedere il rischio di demenza. Sono promettenti e molto concreti i primi risultati del progetto nazionale Interceptor, finanziato nel 2018 da ministero della Salute e Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), presentati oggi a Roma. La combinazione degli otto parametri supera la soglia dell’80% di accuratezza predittiva, hanno spiegato i ricercatori.
La sfida delle terapie anti Alzheimer in arrivo
Risutalti che arrivano mentre appaiono sul mercato i primi trattamenti che agiscono sui meccanismi biologici di sviluppo della malattia, già approvati dalla Food and Drug Administration (Fda) negli Stati Uniti e in un caso dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema) in Europa.
“Il Progetto Interceptor rappresenta un passo avanti fondamentale verso l’individuazione di biomarcatori in grado di predire chi, affetto da disturbi cognitivi lievi, avrà in seguito maggiori possibilità di sviluppare l’Alzheimer. Consentendo così un utilizzo più mirato di terapie altamente costose, che rischierebbero altrimenti di mettere in seria crisi l’intero sistema di assistenza sanitaria”, ha sottolineato il presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Robert Nisticò, intervenuto al convegno all’Istituto Superiore di Sanità.
Anche perchè sul fronte delle terapie le cose si stanno muovendo. L’Ema ha recentemente approvato lecanemab, un anticorpo monoclonale “che ripulisce il cervello della beta amiloide, la proteina che accumulandosi nel cervello può generare infiammazioni che portano alla neurodegenerazione e a disturbi come la perdita della memoria. Ma sull’efficacia del farmaco c’è ancora molta incertezza, perché rimuovere la beta amiloide non necessariamente ha un impatto positivo sul paziente in termini clinici e funzionali. Possiamo dire che questo, come altri già approvati dalla Fda americana, sono farmaci che rallentano il decorso della malattia, ma lo fanno in maniera transitoria e la loro efficacia a lungo termine è ancora tutta da verificare”, ha aggiunto Nisticò.

Gli inizi
Lo studio italiano è nato sul finire del 2016 proprio in risposta alla possibile approvazione da parte della Food and Drug Administration del primo farmaco contro l’amiloide. A promuovere la ricerca è stato Paolo Maria Rossini, all’epoca direttore dell’Unità Operativa di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e attualmente responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma.
Tre premesse
Il lavoro è basato sulla considerazione che le terapie sono più efficaci se somministrate precocemente, ma anche che le persone con disturbo cognitivo lieve – in Italia sono circa 950mila – sono a maggior rischio di demenza entro tre anni e che i nuovi trattamenti presentano importanti effetti collaterali. Aspetto, quest’ultimo, che rende necessario individuare i candidati con miglior rapporto rischio/beneficio.
Inoltre i costi altissimi ed il fatto che solo il 30-40% delle persone con disturbo cognitivo lieve progredisce verso la demenza, rendono di fatto impraticabile una somministrazione su larga scala.
La ricerca
Partendo da circa 500 volontari, sono stati analizzati 351 partecipanti con declino cognitivo lieve in 19 centri clinici diffusi in tutto il territorio nazionale. I soggetti sono stati sottoposti a una serie di esami per rilevare i seguenti biomarcatori: MMSE (Mini-Mental State Examination)per la valutazione delle funzioni cognitive, DFR per la valutazione della memoria episodica, FDG-PET per l’analisi dell’attività metabolica cerebrale, Risonanza Magnetica (RM) volumetrica per la valutazione dell’atrofia ippocampale, EEG per lo studio della connettività cerebrale, test genetico per APOE e4 ed infine esame del liquido rachidiano per la misurazione dei marker biologici di malattia di Alzheimer.
Durante il follow-up, 104 pazienti sono arrivati a una forma di demenza e 85 alla diagnosi clinica di Alzheimer. I partecipanti sono stati seguiti in media per 2,3 anni, con valutazioni neuropsicologiche e funzionali ogni 6 mesi.
Gli otto elementi chiave
Alla fine i ricercatori sono arrivati a otto fattori chiave: sesso, età, questionario Amsterdam IADL, familiarità per la demenza, test neuropsicologico Mini-Mental State Examination, volume dell’ippocampo sinistro (RM), rapporto abeta-42/p-tau e parametro combinato di Small Worldness dell’Eeg.
Il modello ha dimostrato buone capacità prognostiche nel predire la trasformazione del declino cognitivo lieve in demenza, classificando correttamente l’81,6% delle persone: sia quelle che evolveranno in demenza, che quelle che resteranno stabili. Insomma, il lavoro ha consentito di sviluppare un “modello predittivo per il calcolo del rischio a 3 anni di conversione da declino cognitivo lieve ad Alzheimer”, come ha puntualizzato il presidente dell’Iss Rocco Bellantone.
Interceptor 2.0 e l’AI
L’Alzheimer “è una malattia molto complessa che va aggredita sia con la prevenzione che con terapie in combinazione. Poi con biomarcatori che consentiranno di fare diagnosi e capire la prognosi, saranno in futuro importanti le cosiddette terapie target, capaci di colpire il bersaglio più giusto per ciascun paziente. Questo nell’ambito di un approccio che è quello della medicina di precisione, alla quale Aifa sta lavorando con un Tavolo tecnico che raccoglie le più importanti società medico scientifiche e i rappresentanti dei medici”, ha ricordato Nisticò.
Ma lo studio italiano non si ferma qui. Nel caso in cui l’Agenzia di via del Tritone darà il suo placet a qualcuno dei nuovi farmaci, i ricercatori propongono un Interceptor 2.0 per validare il modello su un relativamente piccolo numero di soggetti e verificare sul campo la capacità di selezione dei soggetti ad alto rischio e di erogazione e monitoraggio del farmaco.
“Ulteriori risultati, vista la vastità delle informazioni raccolte, saranno certamente disponibili nei prossimi mesi e anni, inclusi quelli ottenibili attraverso algoritmi di Intelligenza Artificiale. Da queste analisi – ha anticipato Rossini – sono infatti emersi importanti rilievi scientifici ed organizzativi per la lotta alle demenze, in particolare per una diagnosi precoce ed anche per una prevenzione efficace. Diversi articoli scientifici sono già stati pubblicati su questo dataset e altri seguiranno presto, anche grazie alle numerose collaborazioni avviate con diversi gruppi di ricerca italiani”.

Le valutazioni cliniche e neuropsicologiche “hanno rappresentato il principale elemento predittivo nel modello di conversione da declino cognitivo lieve a demenza”, ha precisato poi Camillo Marra, ordinario di Neuropsicologia e neuroscienze cognitive all’Università Cattolica. “E in generale solo l’integrazione tra dati clinici e dei biomarcatori permette di raggiungere una buona accuratezza nella predizione della demenza di Alzheimer”. Insomma, la sfida per imbrigliare il ladro dei ricordi è complesso, ma la ricerca italiana sta mettendo in luce strategie promettenti, nell’ottica di una personalizzazione che si rivelerà fondamentale contro le demenze. Anche grazie al contributo dell’AI.