SRI e ESG sono le prime proposte di protocolli allocativi: indicazioni sui requisiti che gli investimenti sostenibili devono rispettare e per tale via, protocolli di selezione degli investimenti stessi. Come tutte le umane cose, essi nascono però con un peccato originale: responsabilità, sostenibilità, sociale, ambientale e governance possono essere a un tempo obiettivi da raggiungere ma anche strumentalizzazioni, ovvero occasioni per dissimularne altri.
Environment non significa solo ambiente, ma il ‘creato’ in tutte le sue manifestazioni fisiche e immateriali (materie prime, tecnologie, know-how, aspettative, competenze ed attitudini), ovvero le ‘creature’, participio futuro, che rappresenta il divenire e la potenzialità. Social non significa solo sociale come spazio meritevole di tutela, ma come contesto da valorizzare attraverso l’interazione tra persone motivate al rispetto, al merito, alla generatività. Governance non è solo la struttura preposta alla gestione, ma il commitment che si esplicita nella selezione degli obiettivi, del grado di propensione al rischio, nella ricerca del consenso: la chiave di tutto.
Tre fattori devono essere fonte di particolari riflessioni critiche:
1) ESG implica di necessità un commitment comune tra tutti: ad ogni livello della società – dalle persone, alle imprese, alle filiere, alle istituzioni, alla politica (!) e per tutti i Paesi, perché una è la Terra. Se non è un protocollo adottato da tutti esso diviene un fattore discriminante in negativo, un momento di “selezione avversa”.
2) ESG è un processo, non uno score: esso rappresenta un percorso verso modalità di gestione e attività sostenibili. Tutti i settori sono eligibili senza esclusione alcuna, perché tutte le attività devono svolgersi in modo strumentale e nel rispetto di reciproche interazioni tanto più per i settori più critici. ESG non deve essere il pretesto per abbandonare o privilegiare l’investimento in determinati settori. Esso diventerebbe così uno strumento di misallocation e di discriminazione tra business.
3) ESG va valutato in termini di contribuzione alla progressione del Paese nel suo complesso, verso un’interazione sociale e civile più evoluta e orientata alla valorizzazione del ‘creato’ e delle ‘creature’, ovvero di quanto sarà creato. Si tratta di diffondere una nuova forma di capitalismo e di cultura imprenditoriale, così come dell’apparato statale.
Solo un ipocrita inorridisce vedendo la plastica in mare senza vedere la mano che ce l’ha buttata. Solo uno speculatore parla di sostituire un materiale con un altro senza considerare il diverso impatto delle filiere che lo producono. Solo un manipolatore valuta la performance ESG in termini di mero rating e parametri circoscritti e strumentali a rimbalzare responsabilità e a sostanziare pratiche di greenwashing. Ipocriti, speculatori e manipolatori non sono ESG. Tanto meno quando fanno sistema.