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L’Italia è un Paese per robot? Sì, e non è vero che tolgono lavoro

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Velasco25 Articolo

L’Italia è un Paese per robot? Lo sviluppo e le fortune della manifattura passano dal loro utilizzo massiccio? Una volta questo quesito sarebbe stato paradossale. I robot, anche per le caratteristiche antropomorfe, sono stati sempre considerati come il principale fattore di sostituzione di forza lavoro. Questa sensazione è stata poi nel tempo convalidata da approfondimenti accademici che si sono occupati di mettere nero su bianco i numeri della sostituzione. È il caso dello studio di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne uscito nel 2013, secondo il quale l’automazione avrebbe messo a repentaglio il 47% dei posti di lavoro statunitensi. Si sarebbero salvati solamente i lavori rientranti nel cosiddetto «collo di bottiglia tecnologico» composto da mansioni basate sulla creatività e sull’interazione tra umani.

 A distanza di un arco di tempo sufficientemente ampio non sembra che stiano vincendo le Cassandre se persino nelle sue ultime Considerazioni finali da governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta il 31 maggio scorso, ha potuto sostenere che l’Italia è (fortunatamente) un Paese dei robot. Escludendo il settore automobilistico, l’industria manifatturiera italiana è la più automatizzata e la sua evoluzione nel tempo risulta simile a quella tedesca e migliore di Francia e Spagna. Panetta ha sostenuto che le produzioni di apparecchi elettrici e di prodotti in metallo sono in Italia tradizionalmente le più intensive nell’uso dei robot e a questi settori si sono aggiunti il metallurgico, l’alimentare e il farmaceutico, nei quali il numero dei robot è cresciuto nell’ultimo decennio a un ritmo più sostenuto rispetto agli altri Paesi.

 È un fatto che continui la loro invasione. Che sfiora quota 4 milioni nel mondo, di cui 553 mila installati soltanto nel 2022 e di questi più della metà in Cina (290.300). Al sesto posto c’è l’Italia con 11.500, che si colloca in una posizione di vertice. Nel 2021 ne abbiamo venduti all’estero 14.083. Si tratta di una crescita in termini relativi sul 2020 (+17%), seconda solo alla Cina. Non è un caso che, a parte Pechino che da oltre un ventennio ha iniziato la sua corsa per occupare tutti gli spazi della scienza e della tecnologia, gli altri Paesi siano delle economie a forte vocazione automobilistica (Giappone, Corea, Germania, Usa e Italia).  Se, grazie anche all’automazione l’azienda va bene e regge il mercato anche la pianta organica può crescere, in caso contrario no. Va semplicemente fuori mercato. E comunque, sottolinea Bankitalia, le analisi disponibili mostrano che finora l’adozione di robot ha avuto sull’occupazione effetti negativi negli Stati Uniti (per ogni robot si sono persi sei posti di lavoro diretti che scendono a tre se si guarda complessivamente), ma positivi in Francia, Germania e Italia.

Lo studio citato è del 2021 ed è stato firmato da Davide Dottori e sostiene che tra il 1996 e il 2021 i settori che hanno incrementato di più l’automazione hanno avuto una crescita del numero di occupati e della produttività in linea con gli altri comparti. In Italia non emerge nessuna correlazione negativa con l’occupazione, mentre si riscontra una relazione positiva con la produttività. I robot nelle fabbriche non sono una novità come mostra la relazione con le catene di montaggio delle automobili: dal fordismo al toyotismo siamo passati velocemente nel Novecento al “robotismo”. Ma i vecchi esemplari erano imprigionati in gabbie di protezione, non certo per loro, ma per gli operai. Ora siamo nell’era della specie nuova, quella “collaborativa”. Si tratta di macchine più evolute che possono condividere il piano di lavoro con l’essere umano, ma che per farlo, seppure con un’intelligenza e una tecnologia più elevata, hanno dovuto sacrificare la velocità.

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