Intervista a Pierfrancesco Favino, protagonista di ‘Napoli – New York’, il film diretto dal premio Oscar Gabriele Salvatores: “Se ci raffigurano con pizza, mafia e mandolino dipende da noi”.
È un film magico, a tratti straordinario, quello uscito nelle sale cinematografiche a fine novembre con il titolo ‘Napoli – New York’. Sicuramente non riuscirà ad emulare l’incredibile successo di ‘C’è ancora domani’ di Paola Cortellesi, ma gli ingredienti di un affresco ricco di stile e grazia ci sono tutti. A cominciare dal fatto che si tratta di un soggetto ritrovato di Federico Fellini e del suo fedele sceneggiatore Tullio Pinelli, ovvero due maestri assoluti del cinema e della cultura del nostro tempo.
C’è poi la sapiente mano alla regia di un premio Oscar (per ‘Mediterraneo’ nel 1992) come Gabriele Salvatores e, non ultimo, un parterre di attori di primo piano (compresi i ragazzini Antonio Guerra e Dea Lanzaro, due veri enfant prodige), capitanati da un Pierfrancesco Favino in perenne stato di grazia. ‘Napoli – New York’ è il racconto di due scugnizzi che, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, tra stenti e miseria, decidono di imbucarsi da clandestini a bordo di una nave che li porterà a New York per cominciare una nuova vita.
Favino, pur essendo un racconto dai vari piani di lettura, lei tiene a sottolineare che questo non deve essere considerato un film ‘politico’ sul presente.
Ognuno è libero di leggerci ciò che vuole. Non abbiamo realizzato un film a tesi, il nostro è un romanzo di formazione, con vari temi e spunti che compongono nel suo insieme quella che per noi interpreti e realizzatori resta una favola. Una favola ‘vera’ o veritiera, che nasce dalla mente di due geni e che Salvatores ha adattato con maestria.
Lei ha fatto un meraviglioso lavoro sul suo personaggio, Garofalo, il commissario di bordo della nave che riporterà a terra, a New York, i due sciuscià. Oltre ad aver suggerito degli espedienti narrativi in fase di sceneggiatura (che non sveleremo per non anticipare una scena chiave), ha lavorato sulla lingua in modo minuzioso per raggiungere la perfezione.
Ho studiato moltissimo e mi sono accorto che la lingua parlata a New York negli anni ’30 e ’40 dagli italoamericani di Brooklyn era un misto di dialetti, su base prevalentemente siciliana e veneta, più un americano maccheronico, figlio dell’immigrazione irlandese. Un mix molto particolare definito, appunto, ‘broccolino’ che è qualcosa di unico, nato per strada e dalle contaminazioni. Mi ha aiutato molto ascoltare i genitori di Martin Scorsese nel documentario ‘Italians’, i loro accenti e le loro cadenze erano teatro puro, anzi teatralità. Su quello però ho voluto prendermi delle libertà creative e antropologiche: la nostra storia comincia a Napoli e il mio Domenico Garofalo doveva avere quell’accento lì. È stato un gioco, uno stimolo. È stato un modo per mettere un sassolino diverso e provare a cambiare un immaginario che ci vede sempre raccontati nello stesso modo. Dipende da noi farci percepire in modo diverso, con altre sfaccettature.
Si spieghi meglio.
La rappresentazione dell’italoamericano in questo tipo di film è spaghetti, mafia e mandolino. Ma dobbiamo raccontarci meglio, anche in altri modi, più profondi. Io ci ho messo del mio con la lingua, il film fa il resto: una storia di grande dignità, di sogni e di ambizioni.
Non un sogno americano ma un italian dream.
I ragazzini scappano dalla miseria e dalla sfortuna per andarsi a prendere il loro futuro. Ma quello che vogliono lo sanno bene, e se lo portano dietro dall’Italia viaggiando nella stiva e poi in un container di arance. Hanno un ideale forte di famiglia, sacrificio e determinazione: virtù italiane che hanno contribuito nel corso dei decenni a fare l’America del Novecento per come la conosciamo noi oggi.
Non le chiedo un commento sul tax credit perché il decreto è in fase di revisione, di certo è passata la ‘stretta’ ministeriale che ridurrà gli sprechi, anche a discapito di qualcuno che perderà un’occasione per far un potenziale buon film.
È un momento difficile per il cinema e non solo per quello italiano, c’è un problema di biglietti venduti e anche di difficoltà creativa. Niente di nuovo, spesso accade. Il sostegno statale serve a produrre film puri e bellissimi come ‘Vermiglio’ oppure pensiamo al caso de ‘Il ragazzo dai pantaloni rosa’ che ci ha ricordato quanto il cinema sia addirittura necessario, alle volte, come strumento per raccontare la nostra società, un mezzo di comunicazione introspettivo capace di farsi carico di dinamiche molto complesse.
Per lei il cinema è ricerca.
Certo, anche. Il cinema sta dentro la cultura e la cultura è ricerca, e per quanto mi riguarda la ricerca non deve avere gli incassi come metro di paragone: bellissimi film hanno incassato poco o altri meno belli hanno fatto milioni. Sono ambiti diversi. Sacrosanto ridurre gli sprechi, ma diversificare l’offerta culturale e cinematografica è una ricchezza che va oltre il botteghino. Fa parte della crescita di un individuo e del modo in cui esportiamo il nostro Paese nel mondo.
A proposito di formazione: il sottosegretario Lucia Borgonzoni sta concretamente portando avanti l’iter per l’insegnamento del cinema come materia all’interno delle scuole. Una battaglia che lei ha portato avanti in prima persona in questi anni.
Lo abbiamo fatto in molti come ‘Unita’, il sindacato degli attori. Il cinema e il teatro come materie di studio arricchiscono la formazione umanistica dei nostri ragazzi e svezzano nuove generazioni di spettatori, oltre ovviamente a stimolare i giovanissimi verso mestieri molto concreti, le famose maestranze per cui l’Italia, con Cinecittà e non solo, è sempre stata all’avanguardia.