Un caso classico di disinformatia. Ma a quale scopo? Con quale regia? Queste domande si impongono a proposito del documento, pubblicato sui social da un giornalista investigativo arabo, relativo alla telefonata tra il capo dell’Aise Caravelli e il numero uno dell’intelligence siriana Luqa. In una nota inviata al dittatore deposto Assad, Luqa riferirebbe della telefonata ricevuta dall’omologo italiano, lo scorso 5 dicembre, mentre i ribelli avanzavano su Homs. “Ha sottolineato il sostegno del suo Paese alla Siria in questo momento difficile, specificando che l’appoggio russo alla Siria non sarebbe stato dimenticato”, si legge nel documento di cui nessuno sa con certezza se sia autentico o contraffatto.
Ci sono tuttavia molte ragioni per ritenere che la telefonata ci sia stata, non risultano smentite ufficiali, e soprattutto appare più che plausibile che nel mezzo di una sommossa interna i vertici di due agenzie di intelligence entrino in contatto. Qual è, del resto, il compito dei servizi segreti se non quello di raccogliere informazioni di prima mano, tanto più in una fase di instabilità con una rivolta in corso e la prospettiva di un regime change? O qualcuno si scandalizza perché i servizi dovrebbero interloquire soltanto con le democrazie purissime e immacolate? Il generale Caravelli è un servitore dello Stato, una punta di diamante dei nostri apparati di intelligence, con una straordinaria esperienza negli hotspot di mezzo mondo. Che il capo dell’Aise abbia potuto contattare il proprio omologo per sapere quale fosse la situazione sul campo, quali fossero le loro previsioni e perché l’avanzata dei ribelli jihadista proseguisse senza un’efficace azione di contrasto, rientra pienamente nei doveri e nei compiti specifici dei nostri apparati. L’ipotesi invece che Caravelli, o altri per conto del governo italiano, abbiano anche solo ventilato il sostegno a un regime isolato e in crisi, appare del tutto inverosimile. La classica “polpetta avvelenata”, utile a intorbidire le acque e ad appannare l’immagine dell’Italia al cospetto dei nuovi governanti. A questo punto sorge la domanda più insidiosa: chi ha interesse a mettere in cattiva luce l’Italia agli occhi dell’esecutivo fresco di insediamento?
I fatti raccontano una storia diversa. L’Italia ha riaperto la propria ambasciata a Damasco già sul finire dell’estate, e nella primissima nota diramata dal governo ad interim, guidato dal premier al Bashir, l’Italia è l’unico Paese europeo e occidentale che viene espressamente ringraziato dai nuovi governanti per aver ripreso il lavoro delle missioni diplomatiche (gli altri Paesi citati, nella suddetta nota, sono Egitto, Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Bahrein, Oman). Un segnale di apertura notato in Europa e oltreoceano, anche dalle parti del presidente eletto Donald Trump, a dir poco riluttante a occuparsi di una terra lontana ed esotica come la Siria. Per gli Usa l’Italia può essere l’interlocutore strategico non solo in Europa ma anche in Medioriente. E in Siria la vera partita che può vedere l’Italia protagonista, con un peso diplomatico crescente, il sostegno americano e i mal di pancia di qualche vicino europeo, riguarda la ricostruzione del Paese distrutto da oltre dieci anni di guerra civile. Per avere un’idea dell’entità degli investimenti necessari, pensate che, soltanto per ricostruire i monumenti distrutti, le stime più accreditate parlano di almeno cinquecento miliardi di dollari, un Piano Marshall moltiplicato per tre volte. E poi ci sono le case, le infrastrutture e le città letteralmente rase al suolo. Le imprese italiane hanno il vento in poppa per giocare un ruolo di primo piano grazie alla forza diplomatica del nostro Paese e a una congiunzione astrale che da Damasco porta a Washington.