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Irpef, pochi contribuenti pagano per tutti: i numeri

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Velasco25 Articolo

Il 40% di chi ha presentato la dichiarazione dei redditi nel 2023 si è fatto carico di oltre il 90% dell’Irpef, senza ricevere alcuna forma di sconto fiscale. L’86,33% delle imposte dirette, inoltre, viene redistribuito sotto forma di servizi gratuiti a beneficio soprattutto delle prime tre fasce di reddito fino a 20mila euro, in cui rientra oltre la metà degli italiani. I dati emergono dall’ultima analisi realizzata dall’Osservatorio itinerari previdenziali sulle entrate fiscali del Paese. Ma per Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche di itinerari previdenziali, la sperequazione non è soltanto frutto di economia sommersa ed evasione fiscale, quanto di un sistema tributario “iper progressivo” in cui “più dichiari, più tasse paghi”. Per Brambilla le misure di welfare destinate a contrastare la povertà e l’esclusione sociale sono in realtà “incentivi economici a non lavorare”. 

Tra i vari numeri che emergono da questa edizione dell’Osservatorio, qual è il dato più eclatante?

Il nostro è un Paese in cui il 60% della popolazione paga l’8% dell’Irpef e il restante 40% ne paga il 92%. Viene da chiedersi quanto possa durare un Paese in cui la maggioranza della popolazione fruisce di tutti i servizi senza avervi contribuito. Il secondo dato, collegato al primo, è che solo per pagare la spesa sanitaria a quel 60%, colmando la differenza fra Irpef versata e costo della sanità, occorre che chi paga metta sul piatto quasi 60 miliardi l’anno. Se nessuno contribuisce, garantire la sanità a tutti diventa complicato.

Come si spiega questa stortura?

La conclusione a cui giungiamo noi è che questa è ormai un’evasione di massa, perché è impensabile che il 60% della popolazione non arrivi a 1.000 euro al mese. C’è qualcosa che non va: c’è tutta una serie di incentivi impliciti dello Stato a non lavorare. Se in una grande città come Roma o Milano, a una signora viene proposto di fare la colf e magari lei è a carico del marito e hanno due figli, alla signora risulterà assolutamente sconveniente accettare quel lavoro. Tra assegno unico universale per i figli, scuola, mensa e libri gratis, bonus affitti, si arriva a 700 o 800 euro netti al mese. Perché dovrebbe accettare di andare a lavorare per 1.200 euro lordi e perdere tutti i benefici?

Forse il problema sono anche gli stipendi troppo bassi rispetto al costo della vita.

Se lei prende le statistiche dell’Ocse, scopre che gli stipendi italiani bassi e medio-bassi, quelli che stanno sotto la mediana, sono praticamente in linea con gli stipendi europei. Gli stipendi alti e medio-alti invece sono inferiori fino al 30-35%. È vero comunque che gli stipendi sono bassi, ma lo sono perché i sindacati non sono più in grado di condurre la trattativa per allineare le retribuzioni all’inflazione. Alla Boeing hanno bloccato tutto per sette settimane e gli operai hanno ottenuto un aumento del 38%. Qui fatichiamo ad avere il 4% in più con l’inflazione all’8%. È evidente che si è inceppato il meccanismo della contrattazione sul quale si era fondata l’Italia dopo l’abolizione della scala mobile. 

A suo avviso l’anomalia è legata all’evasione fiscale o alla natura del sistema tributario che, come prescrive la Costituzione, è orientato a criteri di progressività?

Il sistema è ormai iper-progressivo: più dichiari, più tasse paghi. Al crescere del reddito, l’aliquota cresce in modo più che proporzionale, a differenza del sistema tedesco dove cresce per millesimi. Inoltre, all’aumentare del reddito diminuiscono deduzioni e detrazioni.

Come si rende sostenibile il welfare?

Dovremmo incominciare a fare come si fa in altri Paesi europei, tra cui Germania, Svizzera o Danimarca. A 33 o 34 anni, se non hai mai fatto una dichiarazione dei redditi, lo Stato conduce un’indagine per capire di cosa vivi. In questo modo scopriremmo quanti mafiosi e malavitosi abbiamo qui in Italia. Servirebbe anche la banca dati dell’assistenza. Da noi l’Agenzia delle Entrate non è in collegamento con l’Inps, le Regioni, i Comuni. Nel 2008 l’Italia spendeva 73 miliardi per la lotta alla povertà. Nel 2023 è arrivata a spenderne 165.

Con quali risultati?

I poveri assoluti, secondo l’Istat, sono passati da 2,1 milioni a 5,7. C’è qualcosa che non va. Bisogna rimodulare l’Isee, perché al momento basta andare da un patronato e farselo aggiustare per ottenere i benefici. Se vogliamo che il welfare sia sostenibile, dobbiamo eliminare gli incentivi impliciti a non lavorare. Perché in Italia il tasso di occupazione femminile è al 50%, contro la media europea del 70%? Semplicemente perché a una donna non conviene lavorare.

Quali sono i fattori principali che spiegano l’aumento del 29,4% del welfare rispetto al 2012?

Le misure assistenziali. Pensi alla Naspi: ci sono ragazzi che dopo due anni di lavoro chiedono di essere licenziati perché così possono prendersi un anno sabbatico con la Naspi pari all’80% dello stipendio. A quel punto, se non riescono a trovare un impiego, accedono all’assegno di inclusione a décalage per altri diciotto mesi. Chi glielo fa fare ai giovani di lavorare?  

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