Sarebbe cinico dolersi per la caduta di un dittatore sanguinario, ma potrebbe rivelarsi azzardato rallegrarsi per la conquista del potere da parte dei ribelli jihadisti di Al Jolani. Le barbe lunghe non sono salvatori né patrioti. Sono estremisti islamici, bramosi di issare le bandiere della Sharia. Di buono c’è che Al Jolani, il leader di Hayat Tahrir al Sham (HTS, la coalizione di milizie che ha rovesciato il potere siriano di Bashar al Assad), già qaedista che inneggiava all’11 settembre, intende mostrare al mondo un volto moderato e dialogante con le diverse comunità che popolano la Siria. Nessuno sa che cosa accadrà a Damasco, per questo Germania, Austria, Norvegia, Danimarca, Svezia e Grecia hanno già sospeso l’esame delle domande di asilo dei rifugiati siriani.
Fonti di HTS fanno sapere che “non interferiranno” con l’abbigliamento delle donne, un portavoce del gruppo, all’Ansa, dichiara che il nuovo governo in Siria non imporrà il velo alle donne né introdurrà alcuna forma di limitazione alle libertà individuali. Lo dicevano pure i talebani, appena riconquistato l’Afghanistan. Sappiamo com’è andata a finire.
Intanto nei loghi dei media statali – l’agenzia di informazione, la televisione e la radiodiffusione pubbliche – compare adesso la bandiera dell’opposizione. La caduta di Assad, che ottiene asilo politico a Mosca, segna una vittoria per la Turchia e una sconfitta per Russia e Iran. Mosca non riesce a combattere contemporaneamente su due fronti, siriano e ucraino, o semplicemente non intende più dissanguarsi per sostenere un leader impopolare e isolato. Tutto intorno prevale il caos: Israele è penetrato oggi con i suoi carri armati all’interno della regione siriana di Qunaytra, e le IDF sono distribuite a scopo di difesa in tutto il sud della Siria. L’Egitto non gradisce, e condanna “l’ulteriore occupazione delle terre siriane” da parte di Israele. Nessuno sa che cosa accadrà. L’Ue, per bocca dell’Alto rappresentante per la politica estera Kaja Kallas, sollecita una transizione “pacifica e inclusiva”, sottolineando la necessità di preservare l’“integrità territoriale” della Siria e di proteggere i civili e le minoranze.
Nel 2013 l’allora presidente Usa Barack Obama disse: “Assad must go”. A dieci anni di distanza, Assad è andato via ma l’Occidente non festeggia, osserva con prudenza. Del resto, l’ha insegnato la caduta di Saddam Hussein in Iraq e la parabola di Gheddafi in Libia: caduto il dittatore, scoppia il caos. HTS, la coalizione jihadista che ha sconfitto Assad, è classificata come “organizzazione terroristica” da Usa, Onu ed Europa. Perciò, se l’Occidente intenderà riconoscere i miliziani come interlocutori istituzionali, tra le prime questioni da affrontare ci sarà la “declassificazione” del gruppo islamista. Non è mistero che americani ed europei avrebbero di gran lunga preferito la permanenza di un diavolo ben noto, Assad, alle incertezze di un nuovo incerto ordine in Siria con la centralità di un gruppo islamista. Del resto, “jihadisti moderati” è una formula improbabile, una palese contraddizione. Anche per questo gli Emirati arabi uniti, la scorsa settimana, si erano schierati apertamente con Assad. E anche per questo Israele – che pure non ha reso facile la vita al regime siriano decimando le truppe dell’alleato libanese, Hezbollah – avrebbe preferito la sopravvivenza di Assad come garanzia di stabilità. Adesso c’è il rischio concreto che un nuovo Califfato sorga ai confini di Israele, con conseguenze imprevedibili.
Al Financial Times, Yoram Hazony, un accademico israeliano vicino al premier Netanyahu, ha definito una “catastrofe” la vittoria dei “mostri di Al Qaeda”. Donald Trump, dal canto suo, ha confermato il disinteresse americano a impiegare risorse e vite umane su fronti troppo lontani. Nessuno, stavolta, ha voluto spendersi per Assad, il successore riluttante che poi si è fatto despota sanguinario. Il mondo osserva le barbe che avanzano, con la speranza – solo una speranza – di non dover rimpiangere un giorno il regime che fu.