«A che punto è la notte?», verrebbe da chiedersi guardando la traversata dell’automotive italiano verso gli obblighi europei dello stop a benzina e diesel nel 2035. Verrebbe da chiederselo soprattutto ora dopo la crisi ormai conclamata del nostro campione nazionale Stellantis che ha travolto l’amministratore delegato Carlos Tavares. Un documento riservato del ministero dello Sviluppo economico fatto filtrare ai sindacati appena un anno fa delineava a che punto era l’Italia. I numeri erano impietosi e avevano fatto precipitare nello sconforto tutti i confederali. Se va a picco il produttore nazionale, arrivato in colpevole sul ritardo sull’elettrico già durante l’era Marchionne, va a picco l’indotto. Nel nostro Paese ci sono 101 aziende su 900 ad alto rischio di chiusura perché specializzate nel powertrain, il modulo dell’auto con la combustione interna destinato a sparire. Valgono 8,5 miliardi e 26 mila addetti, in bilico perché mancano soldi e capacità per riconvertirsi. Al contrario esistono imprese ad alto potenziale perché lavorano con batterie, connettività, guida autonoma, ma sono solo 40. Il problema è che l’auto elettrica sballa il valore aggiunto, perché quello disponibile, che risiede negli elementi della batteria, comprime il resto. L’auto si semplifica, si fa più leggera, con meno componenti. Il principale costruttore, Stellantis, sforna la 500E ma è ormai ferma a Mirafiori: nessuno la compra e la cassa integrazione tracima.
Il prezzo
In Italia una vettura elettrica costa in media dal 20 al 30% in più di una a motore a scoppio. Siccome il prezzo medio delle vetture tradizionali è attorno ai 25 mila euro, parliamo di un prezzo che oscilla tra i 30 mila e i 37 mila euro. Troppi per il consumatore medio che può permettersi di spendere in media 8 mila euro: generalmente per auto inquinanti. In Italia ne circolano 20 milioni, oltre il 50% del parco vetture costituito da 38,8 milioni di veicoli. Col carovita galoppante e le incertezze dello scenario economico la parte del leone degli acquisti la fa l’usato, che tutto è tranne che è elettrico. Negli ultimi 9 mesi, dati del ministero dei Trasporti, le vetture usate si vendono tre volte di più di quelle nuove e la produzione da noi sta scivolando a 400 mila vetture all’anno. Le auto nuove le comprano prevalentemente le aziende. Quelle usate le comprano i privati. Se le aziende acquistassero di più, potrebbero mettere sul mercato di seconda mano vetture elettriche, in media dopo 30 mesi.
Infrastrutture
Il nodo principale resta quello infrastrutturale: manca un piano nazionale che identifichi una percentuale minima di posti da elettrificare nelle aree di parcheggio. C’è l’incertezza relativa all’autorizzazione per l’installazione di nuove cabine di media tensione. Ad oggi il distributore di energia, che sia Enel, Acea, Unareti o Iren, è l’attore che decide le tempistiche e dà l’ok e dunque tutto dipende dai suoi investimenti. Non c’è neanche la disponibilità della potenza elettrica necessaria a effettuare le installazioni fast con potenze superiori ai 50 kilowatt utili per ricaricare velocemente. Servirebbero incentivi dedicati alle installazioni di sistemi di accumulo che ancora mancano, come risultano tortuose le autorizzazioni (e le attività tecniche) per agganciare i punti di ricarica alle cabine e infine alla rete distributiva di Terna con cavi che passano spesso su terreni demaniali o privati.