Trumpismo senza limitismo. La visita del presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Buenos Aires è interessante per molteplici punti di vista: la Casa Rosada, il balcone di Evita Peron, l’alleanza tra nazioni “hermanas”, sorelle, al posto di un multilateralismo sclerotico e inconcludente. ll vento che spira è un vento liberista, meno stato e più mercato, avanti con le persone, abbasso gli establishment. La vittoria di Donald Trump, al di là delle sue implicazioni geopolitiche, esprime una visione che va al di là dell’opinione pubblica americana: riprendiamoci ciò che è nostro, mettiamo a dieta gli apparati pubblici e facciamo tacere i presunti soloni che pretendono di insegnarci come parlare, come vivere, come pensare. È il riscatto della libertà privata.
Meloni, che è una fuoriclasse cresciuta a pane e politica, per ragioni anche solo biografiche sarebbe idealmente legata all’idea di una destra che crede nell’intervento dello stato, eppure ha compreso che siamo entrati in un’epoca nuova, nell’orbita di satelliti e civiltà multi planetarie, dove non esistono ricette buone per ogni stagione. Il globalismo come ideologia appare archiviato dalla storia, alla religione del mercato si è sostituita una visione centrata sul sentire dei popoli che attendono un riscatto dopo decenni di narrazione sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Lo stato non ci ha salvato, proviamo a salvarci da soli.
Si spiega così l’insistenza di Trump, in campagna elettorale, sulla necessità di mettere a dieta l’apparato pubblico, con un’icona globale come Elon Musk incaricato, insieme all’imprenditore del biotech Vivek Ramaswamy, di guidare il “Dipartimento per l’efficienza governativa”. Musk promette tagli di “almeno duemila miliardi di dollari” dal budget del governo federale, che è di 6.750 miliardi, e ha già annunciato che farà cessare lo smart working per i dipendenti federali (negli Usa circa due terzi dei 2,2 milioni di dipendenti federali lavorano ancora in modalità remota). È evidente l’obiettivo di invitare alla porta coloro che non si adegueranno alle nuove regole.
Si spiega così pure il successo del presidente Javier Milei, un “anarco capitalista” per autodefinizione, che si è proposto agli argentini armato di motosega (e il pupazzetto di se stesso con l’ormai iconico arnese in mano lo ha regalato a Meloni). Una volta arrivato al potere, Milei ha cancellato nove ministeri su ventidue, licenziato 33mila dipendenti federali, ridotto il deficit e l’inflazione che sino al suo avvento stazionava al 225 percento e oggi è al 60 percento. Di Trump Milei è amico, anche se sui dazi non la pensano allo stesso modo, anzi il presidente argentino potrebbe essere definito un Trump non protezionista. Con la premier Meloni la sintonia è evidente: l’Italia, con la leader di Fratelli d’Italia, che è anche alla guida dei Conservatori europei nonché il riferimento politico più solido e stabile tra i grandi Paesi fondatori dell’Ue, si candida a giocare un ruolo di primo piano in quella “Lega delle Nazioni conservatrici” che, al di là di come sarà effettivamente chiamata, mira a creare un asse di cooperazione rafforzata tra Usa, Argentina, Italia (capofila in Europa) e Israele (sentinella in Medioriente). La lotta al socialismo e all’inutile multilateralismo, il contrasto della cultura woke e dell’ideologia gender saranno i pilastri di una contesa politica e culturale destinata a cambiare gli equilibri nel mondo.