Anche prima dell’elezione di Donald Trump e della sua agenda protezionista alla Casa Bianca, molte grandi aziende stavano già pianificando di spostare la produzione fuori dalla Cina a un ritmo accelerato, secondo un nuovo studio.
Un sondaggio condotto su 166 CEO e COO da Bain & Company ha rivelato che la percentuale di aziende che stanno trasferendo operazioni fuori dalla Cina è aumentata dal 55% nel 2022 al 69% nel 2024.
Dove si stanno dirigendo le aziende?
La principale destinazione è stata il subcontinente indiano, scelto dal 39% degli intervistati. Seguono Stati Uniti e Canada con il 16%, il Sud-est asiatico con l’11%, l’Europa occidentale con il 10% e l’America Latina con l’8%, completando la top five delle destinazioni.
Parallelamente, cresce il numero di aziende che riportano operazioni nei Paesi d’origine (reshoring) o le spostano verso Paesi vicini (near-shoring).
Il sondaggio, condotto a luglio, ha evidenziato che la percentuale di dirigenti le cui aziende pianificano di avvicinare le catene di approvvigionamento ai mercati è salita all’81% quest’anno rispetto al 63% nel 2022. Questo include anche il trend emergente del split-shoring, ovvero una combinazione di produzione offshore e manifattura vicino a casa.
Perché le aziende si spostano
Bain attribuisce questa tendenza all’aumento delle incertezze geopolitiche e dei costi crescenti. Per le aziende statunitensi, che rappresentano il 39% del campione, un ulteriore fattore è stato l’Inflation Reduction Act del 2022, che ha incentivato il reshoring.
L’Inflation Reduction Act, una delle principali iniziative di politica interna del presidente Joe Biden, offre incentivi e crediti fiscali in settori chiave come le tecnologie per l’energia verde. Un’altra misura significativa, il CHIPS Act, ha incoraggiato la produzione interna di semiconduttori.
Tuttavia, Bain sottolinea che le decisioni relative alle catene di approvvigionamento dipendono da molteplici fattori. Nel sondaggio del 2022, la geopolitica—che include dazi, regolamenti e inflazione—è risultata una delle principali considerazioni. Ma anche le condizioni del lavoro, il clima, le caratteristiche ambientali e i rischi catastrofici come disastri naturali, terrorismo e minacce alla salute sono stati citati come fattori decisivi.
Il rischio di fare troppo affidamento sulle fabbriche cinesi è diventato evidente quando Trump, durante il suo primo mandato, ha imposto dazi su Pechino nell’ambito delle sue politiche economiche America First. Le interruzioni delle catene di approvvigionamento durante la pandemia hanno poi messo in luce la necessità di una maggiore diversificazione.
Successivamente, Biden ha mantenuto i dazi di Trump contro la Cina, ha imposto restrizioni sugli investimenti statunitensi in Cina e ha incoraggiato una maggiore produzione domestica. Per il suo secondo mandato, Trump ha promesso di aumentare ulteriormente i dazi, inclusi quelli già rigidi contro la Cina.
I dazi di Trump e l’economia cinese
Dazi statunitensi più elevati sulla Cina potrebbero infliggere un altro duro colpo alla seconda economia mondiale, già gravemente colpita da una crisi immobiliare, problemi di debito e persino da sacche di deflazione.
Le esportazioni rappresentano uno dei motori chiave dell’economia cinese, ma le misure di stimolo di Pechino stanno mostrando segni di rilancio dei consumi interni.
Nonostante ciò, il flusso di esportazioni a basso costo che la Cina ha inviato nel mondo ha spinto altri Paesi a imporre ulteriori barriere commerciali contro Pechino.
Nel frattempo, gli investimenti esteri in Cina sono in calo da tre anni consecutivi e la tendenza è proseguita anche nell’ultimo trimestre. Nonostante gli sforzi di Pechino per rilanciare la crescita, gli investimenti esteri sono diminuiti di 13 miliardi di dollari nei primi nove mesi dell’anno.
Questa storia è stata originariamente pubblicata su Fortune.com.