Stefano Feltri ripercorre le tappe della sua carriera e analizza i limiti dell’informazione tradizionale.
L’economia è una prospettiva, un modo di guardare il mondo. Stefano Feltri, una carriera da giornalista economico nelle principali testate italiane, parla così della professione che ha scelto. Dall’esperienza al Fatto Quotidiano – di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore – fino alla direzione del Domani e alla nascita della sua newsletter Appunti, Feltri ripercorre le tappe del suo percorso e individua i nuovi bisogni d’informazione che il giornalismo dovrà cercare di soddisfare. Reinventandosi.
Lei ha studiato Economia, aveva già l’idea di fare il giornalista?
Alla fine del liceo collaboravo con la Gazzetta di Modena e mi divertivo anche con il giornalino della scuola. Fare il giornalista era già un obiettivo, ma per raggiungerlo mi era stato consigliato di specializzarmi su una qualche materia e di costruirmi così una base solida. Ero indeciso tra Economia e Scienze Politiche: alla fine scelsi di andare a Milano, alla Bocconi, e di iniziare un percorso di studi economico.
Raccontare i numeri può sembrare complicato. Qual è il modo giusto per farlo?
In Italia, dove la cultura è prevalentemente umanistica, si fa l’errore di pensare che l’economia sia una sorta di argomento a sé. Per me è una prospettiva, un modo di guardare il mondo. Non è tanto raccontare i numeri, quanto usarli per approcciarsi alle diverse questioni e così provare a spiegarle.
Nel nostro Paese il data journalism, o giornalismo dei dati, è in effetti ancora poco praticato. Secondo lei perché? Innanzitutto c’è un equivoco da segnalare: fare data journalism non è fare data visualization, come spesso invece si tende a pensare. Mi spiego: usare bene i dati, nel senso del data journalism, non vuol dire semplicemente realizzare dei grafici per visualizzarli. È un po’ di più, è servirsi di strumenti di analisi dati per riuscire a tirar fuori qualcosa di interessante da un certo argomento, qualcosa a cui senza quei dati magari non si arriverebbe. In Italia non lo fa quasi nessuno. Al Domani ci abbiamo provato, e siamo stati tra i primi ad avere un data editor, quindi una figura specializzata proprio in questo tipo di analisi.
A proposito del Domani, com’è stata la sua esperienza da fondatore e direttore?
Sono contento del fatto che Domani abbia avuto un impatto sul dibattito pubblico. Come per tutte le esperienze, ci sono cose che avrei potuto intuire prima, per fare ancora meglio. Nella mia carriera comunque mi è capitato spesso di essere coinvolto in ‘startup’: è successo anche con il rilancio del Fatto Quotidiano, del Riformista e – quando mi sono trasferito negli Stati Uniti per un Mba alla Booth School of Business di Chicago – con il sito ProMarket dello Stigler Center, diretto dal professor Luigi Zingales.
Cosa pensa dei cambiamenti in corso nel mondo dell’informazione?
Intanto c’è una cosa di cui bisogna prendere atto: esiste in Italia un’alta domanda di informazione, ma di un’informazione diversa da quella tradizionale, soprattutto tra le persone con un’età compresa tra i 17 e i 40 anni. Si tratta di una generazione che non è abituata a leggere i giornali, che non condivide le classiche gerarchie mediatiche e quindi vuole qualcosa di diverso. Io penso che ormai ci si muova o per nicchie verticali, quindi cercando approfondimenti su argomenti davvero molto specifici – di cui però si vuole sapere tutto e bene – oppure andando verso qualcosa di molto semplice e facilmente fruibile. Sono comunque due estremi non coperti dall’informazione tradizionale, per cui si aprono degli spazi che in qualche modo bisogna saper sfruttare.
E infatti Revolution, il suo nuovo programma su Radio 3, è pensato per una generazione post-edicola.
Nel mondo dei podcast d’informazione o dei programmi radiofonici si raccontano le notizie o per titoli, con le rassegne stampa, o intervistando degli ospiti: non c’è mai un’analisi in tempo reale. Con Revolution, che va in onda a fine giornata (quindi prima che talk e quotidiani abbiano stabilito l’agenda del giorno successivo, ndr) provo a spiegare un fatto in 12 minuti, ad approfondirlo. Il tentativo è quello di immettere informazioni nuove, in modo che chi ascolta possa farsi un’idea precisa e argomentata. Anche se vengo dal giornalismo di ieri così cerco di stare in quello di oggi. L’analisi rimane comunque la dimensione in cui mi sento più a mio agio: non faccio reporting, ma riesco a unire i puntini.
Tra le varie forme di giornalismo che ha sperimentato, da quello sui quotidiani a quello radiofonico, lei è anche autore di una newsletter, Appunti.
È un progetto di cui sono molto fiero, nato in occasione dell’uscita del mio libro ‘Inflazione’, per parlare della crisi dei prezzi. Dopo aver lasciato Domani, la newsletter è diventata anche un modo per mantenere un contatto quotidiano con una comunità di lettrici e lettori. Ora ha 18mila iscritti, 2mila abbonati e sta continuando a crescere: per essere totalmente autoprodotta penso sia un buon risultato.
E i suoi maestri? Chi sono?
Tra le persone con cui ho lavorato e da cui ho imparato di più c’è sicuramente Marco Ferrante, che al Foglio mi ha insegnato a fare giornalismo economico. Poi Giorgio Meletti, del Fatto Quotidiano, che ha scritto anche sul Domani e su Appunti. Marco Travaglio e Antonio Padellaro, sempre al Fatto, da cui pure ho imparato tanto. E il professor Luigi Zingales, con cui ho collaborato a Chicago, che sul piano economico mi ha insegnato più di chiunque altro.