Intervista a Lorenzo Bernardi, nominato miglior giocatore di pallavolo del XX secolo e medaglia d’oro a Parigi con Julio Velasco e la Nazionale femminile
In questa nuova edizione di Human Factor ho avuto l’opportunità di intervistare Lorenzo Bernardi, considerato il miglior giocatore di pallavolo di tutti tempi, e medaglia d’oro a Parigi con Julio Velasco, Massimo Barbolini e la Nazionale femminile. Abbiamo parlato di apprendimento continuo, leadership e delle condizioni per team altamente efficaci. Tante ispirazioni per la vita di leader e team, anche nelle imprese.
Sei stato nominato miglior giocatore al mondo di pallavolo del XX secolo. Ed hai fatto parte di una squadra che i media hanno soprannominato “generazione di fenomeni”. Cosa è l’eccellenza? Cosa è il talento?
L’eccellenza a mio avviso non esiste. Ti direi lo stesso per la perfezione. Raggiungiamo il meglio di noi stessi attraverso la nostra dedizione al lavoro. Si può avere la fortuna di partire da una base dove c’è talento innato, ma il talento da solo non sarà mai sufficiente. Si tratta di una componente fra altre per raggiungere un determinato risultato. Probabilmente il vero talento differenziale di una persona è la propria volontà e determinazione di apprendere e continuare a farlo nel tempo, senza fermarsi. La capacità di assorbire da tutto ciò che si deve fare, da tutto quello in cui ci si deve migliorare. Ci sono tantissime bambine e bambini, ragazze e ragazzi, che in qualsiasi disciplina dimostrano un grandissimo talento per lo sport.
Tutti li considerano dei fenomeni fin da piccoli, ma poi lungo la strada si perdono. Perché? Perché in quel momento è vero che sono dotati di più qualità rispetto ad altri, ma se nel tempo non riescono a continuare a sviluppare quelle qualità, ad evolvere, rimangono fermi. E ciò che accade è che saranno superati da altri che magari avevano a disposizione un minore talento innato, ma che dimostrano un’attitudine molto più spiccata all’apprendimento, al progresso. Io ho avuto, penso, un talento iniziale, ma soprattutto la volontà di migliorarlo continuamente, di voler far sì che quell’elemento diventasse sempre più determinante nel tempo. Ed inoltre ho avuto anche la fortuna di giocare insieme a tantissimi fuoriclasse, che riuscivano a mettere a disposizione della squadra quel valore aggiunto che poi ci ha fatto esprimere a livelli molto alti, in alcuni casi altissimi. L’eccellenza è qualcosa che non c’è, che non esiste, come non esiste la perfezione. Noi siamo il limite di noi stessi: c’è sempre l’opportunità di migliorarsi.
Ci sono state persone determinanti per la tua crescita? In che modo lo sono state?
Sì, ce ne sono state. Più di una. Hanno avuto dei ruoli diversi all’interno del mio percorso. Al primo posto c’è stata la mia famiglia, per il suo sostegno, il suo supporto. Non mi ha mai obbligato a fare scelte specifiche, ha sempre accettato quelle che erano le mie scelte e mi ha sempre sostenuto in esse. Anche nei viaggi più belli e nei percorsi meravigliosi ci sono dei momenti di difficoltà, grandi o piccoli che siano. Questo è stato un primo fattore determinante.
Sul lato professionale c’è stato Julio Velasco. Lui mi ha permesso di avere una svolta radicale all’interno della mia carriera, perché io ho fatto un cambio di ruolo importante, da palleggiatore a schiacciatore, e lui mi ha accompagnato all’interno di questo cambiamento. Lo è stato grazie alle sue doti e capacità di insegnare, aiutare, accompagnare. Ma lo è stato anche grazie alla grande credibilità che aveva per me. In quel momento sarei dovuto essere un palleggiatore e invece lui, con la sua capacità di visione, del non solo vedere quello che ero ma del prevedere quello che potevo diventare, mi ha spinto ad accettare questa grande sfida che poi abbiamo percorso assieme. Chiaramente il protagonista principale ero io. Dovevo cambiare ed evolvere. Però lui è stato presente al mio fianco, con il suo sostegno e con la sua credibilità.
Da campione hai proseguito la carriera nella veste di allenatore. Questa estate vi abbiamo visto nuovamente insieme, tu e Julio Velasco, portare la Nazionale femminile a vincere la medaglia d’oro olimpica. Come fare per avere non solo individui, ma team altamente efficaci?
Ci tengo a precisare che era un team tecnico che vedeva la presenza di Massimo Barbolini, che a mio avviso aveva la conoscenza maggiore nell’ambito della pallavolo femminile, per la sua trentennale esperienza, dove ha vinto tutto. Lo considero veramente un fenomeno. Un allenatore straordinario non solamente dal punto di vista umano, ma anche dal punto di vista del know-how all’interno di questo contesto. C’è stato qualcosa che forse all’inizio, all’apparenza, poteva sembrare un po’ anomalo. Velasco ha voluto vicino a sé due allenatori che erano due primi allenatori, uno che era arrivato secondo e uno che era arrivato quarto nel campionato italiano. Non è una cosa così frequente. Ma quando le cose sono chiare, quando si sa che ruolo si va a svolgere, penso che i risultati possano essere positivi. Io sapevo perfettamente qual era il mio ruolo, Massimo il suo.
Velasco ci ha delegato molto, ci ha dato delle responsabilità importanti che noi approfondivamo e sviluppavamo per poi confrontarci con lui. È chiaro che la scelta finale la faceva sempre lui, però ci ha sempre dato molta, molta fiducia. È stato questo connubio, assieme a tutti gli altri preparatori fisici, fisioterapisti, dottori, assistenti e quant’altro, che ha fatto sì di avere uno staff di primissimo livello. È chiaro che la parte essenziale sono le giocatrici o i giocatori che vanno in campo e devono giocare bene. Insomma, noi dobbiamo cercare di fare all’interno dei nostri ruoli tutto il necessario per far sì che poi loro sviluppino le loro potenzialità, il loro gioco nel miglior modo possibile. Questo è stato il nostro modo di collaborare: si condividevano le idee, le opinioni, quello che si pensava, quello che era utile fare. Ci sono state delle idee che sono state portate a termine, ci sono state delle altre idee che sono state modificate, di chiunque fossero: mie, di Barbolini, di Velasco o di altri. Questo aiuta anche a prendere le decisioni più difficili, nel miglior modo possibile e nel modo più efficace possibile.
Io penso che un primo allenatore non debba mai avere il timore di avere un secondo molto bravo. E se poi il secondo dovesse superare il primo, questo deve sentirsi orgoglioso, perché vuol dire che ha fatto apprendere molto.