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Un piano strategico per le Life Science: l’analisi di Marcello Cattani (presidente Farmindustria)

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Velasco25 Articolo

Il 2023 è stato un anno d’oro per l’export farmaceutico, più 9,7 mld sull’import. Le previsioni di Marcello Cattani, presidente di Farmindustria e numero uno di Sanofi Italia, sono rosee anche per l’anno in corso. “L’industria farmaceutica inciderà positivamente sul Pil nazionale anche nel 2024. Secondo l’Istat, nell’ultimo biennio il farmaceutico è l’unico settore manifatturiero in crescita. Il pharma contribuisce alla ricchezza nazionale per due punti percentuali, tra diretto e indotto. Siamo al secondo posto per saldo positivo tra import ed export, dietro la meccanica. E poi c’è la nostra straordinaria capacità di fare innovazione. Il farmaceutico è un’eccellenza che parte dalle competenze, è il cuore pulsante dell’economia italiana”.

Lei ritiene che il Governo in carica stia valorizzando il settore?

Sicuramente con questo Governo si lavora meglio che in passato. C’è consapevolezza del contributo che diamo anche in termini occupazionali, con circa 70mila dipendenti, di cui quasi la metà è donna. Sarebbe importante uscire dalla logica di breve respiro di una singola legge di bilancio per avere una visione di lungo periodo e superare la logica dei payback. Serve un piano strategico per le scienze della vita che si concentri sulla filiera industriale, sull’innovazione e sulla necessità di rendere più veloce l’accesso ai farmaci. Dobbiamo far sì che l’attrattività del mercato italiano nel campo della salute si rafforzi. Un obiettivo definito, per esempio, è quello di dimezzare i tempi nazionali di accesso ai farmaci passando dagli attuali quattordici a sette mesi, un altro obiettivo è ricodificare il valore dei farmaci innovativi affinché l’Italia diventi attrattiva per i farmaci ad alto valore aggiunto. Non si tratta solo di valore clinico, ma anche di beneficio concreto per l’economia.

Lei ha detto che nel nostro Paese i costi operativi sono aumentati del 30%.

È un dato che preoccupa perché riduce la competitività del sistema Paese. Tali costi sono dovuti principalmente all’approvvigionamento dei principi attivi, provenienti per il 75% da Cina ed India, e di tutte le materie prime (plastica, carta, alluminio). Siamo dipendenti dall’estero anche per la produzione dei blister. È un fenomeno negativo che fa perdere competitività al sistema, anche perché il nostro Paese ha il prezzo medio di rimborso più basso a livello europeo.

Secondo lei, i farmaci dovrebbero costare di più?

In un contesto di costi crescenti e di competizione sempre più forte a livello internazionale esiste un problema di sostenibilità industriale. L’Italia, come l’Europa, è convinta di vivere in un mondo di commodity ma la salute non è una commodity, è un investimento. Se vogliamo l’innovazione, dobbiamo sopportarne i costi commisurati al valore. Bisogna agire per rendere il sistema più attrattivo, serve un modo diverso di ragionare sui farmaci: dobbiamo prestare attenzione non al minor costo ma al valore generato.

Negli investimenti R&D il pharma svolge un ruolo centrale, soprattutto rispetto alle finanze pubbliche sempre a corto di risorse.

Nel 2023 l’industria farmaceutica ha investito quattro miliardi di euro tra ricerca clinica, di base e tecnologia industriale. L’Italia fatica a sposare le parole ‘innovazione’, ‘produttività’ e ‘competitività’. L’industria farmaceutica invece li ha nel proprio Dna. Secondo i dati più accreditati, un euro investito in prevenzione vaccinale, per esempio, può generare fino a 40 euro di beneficio per il sistema pubblico; un euro investito in ricerca può generare moltiplicatori enormi di beneficio per il sistema.

Esiste un tema annoso che vi riguarda, il payback, meccanismo che impone alle aziende di ripianare l’eccedenza della spesa.

Per prima cosa, va detto che il Governo ha ereditato il risultato di decenni di tagli continui su salute, sanità, istruzione, servizi sociali. Finalmente abbiamo una presidente del Consiglio che afferma: “Non disturbare chi vuole fare”. Nonostante un punto di partenza critico, i risultati del lavoro con l’attuale Governo sono positivi: sono aumentate le risorse destinate al fondo sanitario, sono stati realizzati interventi volti a ridurre e stabilizzare il payback. È chiaro che dal 2026 serve un modello nuovo e diverso, che tenga conto dei cambiamenti avvenuti. I bisogni di salute non sono più gli stessi.

Un esempio?

Il sistema dovrebbe occuparsi di misurare l’outcome, vale a dire il valore e il ritorno – in termini, ad esempio, di risparmi per le prestazioni evitate, la salute, la produttività guadagnata, gli investimenti attratti – di ogni euro investito in un farmaco o nella prevenzione, anche ricorrendo agli algoritmi e ai dati di cui abbiamo un enorme bisogno. Il garante della Privacy deve consentire l’utilizzo del dato sanitario per finalità di assistenza e di ricerca, altrimenti l’Italia non potrà essere competitiva. Questa è la sfida, l’unica strada possibile per sopravvivere nel mondo contemporaneo. Inoltre, è urgente investire di più e meglio in prevenzione.  Oggi si investe soltanto il 5% delle risorse, con un coordinamento abbastanza decentralizzato delle strategie di prevenzione, a partire da quelle vaccinali, dato che ogni Regione può muoversi, di fatto, in maniera completamente autonoma nella determinazione delle priorità.

Bisogna anche sfrondare la burocrazia?

È una necessità assoluta. Il primo segnale potrebbe essere l’abolizione immediata dei prontuari terapeutici regionali che comportano per i cittadini una sperequazione nell’accesso ai nuovi farmaci. Ci sono Regioni del tutto sprovviste di questi prontuari e con un accesso migliore della media.

La tecnologia mRNA è destinata a segnare un traguardo storico nella lotta ai tumori.

Per prima cosa, è bene ricordare che siamo usciti dal lockdown soltanto grazie ai vaccini, sviluppati in tempi record dall’industria farmaceutica. Oggi sappiamo che la tecnologia mRNA è in grado di aiutare determinate categorie di malati oncologici allungando la loro esistenza. È solo una delle nuove scienze di frontiera insieme, per esempio, alle cellule staminali e all’editing genetico. Oggi la filiera delle life science in Europa pesa per circa il 12% sul Pil europeo, un valore che potrebbe arrivare al 20% da qui al 2030 se sapremo difendere i nostri brevetti. Non si comprende perché l’Europa pensi ad accorciare la tutela della proprietà a otto anni quando invece Stati Uniti e Cina la allungano a 14 anni. Sarebbe un suicidio collettivo. L’Europa deve difendere le proprie imprese anziché azzopparle.

 

 

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