La vita di Donald Trump è fatta di eccessi e paradossi. Le elezioni che lo hanno incoronato 47esimo presidente degli Stati Uniti (dopo essere stato il 45esimo) ne sono la conferma. In campagna elettorale, non gli hanno risparmiato nulla: la mostrificazione mediatica, il gossip per colpirne gli affetti, la persecuzione giudiziaria a colpi di inchieste arzigogolate e inconsistenti, le accuse di razzismo all’uomo che ha stravinto anche tra afro e latinos. Lo hanno accusato di fomentare la violenza politica nelle settimane in cui è stato vittima di ben due attentati.
Trump, nei sondaggi, era sottostimato, come sempre gli accade. Perché il sistema mainstream e, in generale, il mondo dei media non lo hanno mai amato, anzi lo hanno sempre considerato un corpo estraneo. E i suoi elettori sono sempre stati considerati niente più che “spazzatura” o esseri “deplorevoli”. Del resto, da quelle parti spadroneggiano i democratici che, dopo aver licenziato in modo brutale un buon presidente come Joe Biden, hanno incaricato una donna modesta, dalla personalità sulfurea, capace di dire tutto e il contrario di tutto, dispensatrice di sorrisi interminabili e povera di proposte concrete al di là degli slogan. La candidatura di Harris è nata da una menzogna sulle reali condizioni di salute del presidente in carica, e si è manifestata in un’operazione oligarchica, top down, diretta dai Clinton e dagli Obama, dai clan che tengono le redini di un partito alla canna del gas.
Secondo i sondaggisti, il confronto tra Harris e Trump sarebbe stato un “neck and neck”, un testa a a testa. A urne chiuse, invece, abbiamo scoperto che Trump ha stravinto tanto tra i grandi elettori che nel voto popolare, conquistando anche la maggioranza al Congresso. Il voto delle donne non è bastato a colmare la fuga degli uomini. La politica delle identità non ha funzionato: il merito di essere donna e black non ha dato solidità alla figura della vicepresidente che si è attorniata di attori e cantanti, epigoni del mondo californiano da cui Harris proviene. La vicepresidente ha cercato in tutti i modi lo star power mentre Trump, perennemente on stage, diceva: io non ho bisogno di star, io sono la star.
Le elezioni americane Trump le ha vinte su inflazione e immigrazione. La battaglia contro il carovita che impoverisce le famiglie americane e la promessa di deportare 11 milioni di irregolari fuori dai confini nazionali hanno disegnato la prospettiva che gli americani vogliono: più concentrata sul fronte domestico, sulle questioni interne, piuttosto che proiettata sul palcoscenico del mondo. Ora, non sappiamo se e come il piano di deportazione prenderà forma, ma di sicuro Trump ha tracciato la rotta: basta lassismo, in America entra soltanto chi ha diritto. E questo è un argomento che ha convinto anche gli immigrati regolari, che sono riusciti a costruirsi una dimensione esistenziale per sé e per la propria famiglia, e si sentono minacciati dal rischio di ingressi illimitati.
Ci sarà tempo per ragionare su dove andranno gli Usa e l’Europa, sul rischio di guerre commerciali o sulla probabile accelerazione verso la pace in Ucraina. Di certo, la posizione di rendita dell’Europa – sul piano della sicurezza, dell’economia e della tecnologia – è in ogni caso ai titoli di coda. Come sostiene l’ex premier Mario Draghi nel suo rapporto, l’Europa deve imparare a fare da sé, a destinare risorse adeguate per la propria difesa, a proteggere le imprese europee, a investire nell’innovazione tecnologica per stare al passo con Usa e Cina. È una sfida esistenziale, e Trump potrebbe essere, suo malgrado, il “fattore esterno” in grado di spingere in avanti un processo ormai inevitabile.