“Una questione di domanda e offerta”. Per Roberto D’Alimonte, professore ordinario alla Facoltà di Scienze politiche della Luiss, alla radice dei risultati delle ultime elezioni americane c’è un fatto semplice, quasi elementare. Donald Trump ha trionfato perché gli americani avevano bisogno di un cambiamento forte, che Kamala Harris, nonostante tutto, non è stata in grado di rappresentare. Considerando poi che per il tycoon si tratta del mandato numero due, secondo il politologo “siamo di fronte a una vittoria straordinaria”.
Professore, come spiega i risultati di queste elezioni?
Penso si possa parlare di una questione di domanda e offerta. In America c’è una domanda di cambiamento e un’offerta molto limitata. Semplicemente tra Donald Trump e Kamala Harris gli elettori hanno visto nell’ex presidente l’offerta migliore. Bisogna tenere conto del fatto che il 70% dei cittadini statunitensi pensa che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, quindi – tra due candidati i cui tassi di gradimento non sono certo elevati – ha deciso che per cambiare la direzione del Paese la proposta più credibile era quella di Trump. Harris invece non si è dimostrata una candidata competitiva.
Quali sono i motivi dietro alla sconfitta di Kamala Harris? È scesa in campo troppo tardi?
Harris aveva il fardello di una vicepresidenza in un’amministrazione molto poco popolare. Per forza di cose la sua era una figura in continuità con la presidenza Biden, da cui non è stata capace di dissociarsi – operazione che peraltro sarebbe stata molto difficile e complicata, anche solo per una questione di tempo. Ritengo che il responsabile maggiore della sconfitta di Harris e dei Democratici sia proprio Joe Biden: le scelte dell’ex presidente hanno portato dritte alla vittoria di Trump. Biden non avrebbe mai dovuto dichiarare che avrebbe corso per la seconda volta, ma attenersi a quanto detto nel 2020, quando aveva parlato di un solo mandato. Così avrebbe quantomeno permesso lo sviluppo di una competizione aperta tra candidati validi del partito democratico: dalle primarie sarebbe forse emerso un candidato più competitivo di Harris.
E veniamo così alla forza di Trump.
Il fenomeno Trump è complesso e ha origini profonde. Lo scontento di tanti americani, che in molti casi si traduce in rabbia, viene dal fatto che negli ultimi 20 o 30 anni si sono verificati mutamenti molto profondi e drastici nell’economia del Paese. Milioni di elettori pensano che le élite politico-economiche non abbiano saputo proteggere gli interessi della classe media e della classe operaia. La rivoluzione tecnologica, tuttora in corso, è la terza grande rivoluzione economica dopo quelle di fine ‘700 e di fine ‘800. Tra i suoi effetti c’è l’aver distrutto posti di lavoro e impaurito milioni di persone, che già nel 2016 avevano ritenuto opportuno rivolgersi a Donald Trump, un personaggio lontano da un certo tipo di establishment. Il paradosso sta proprio qui: più Trump si mostrava diverso – con tutte le sue escandescenze e volgarità – e più diventava credibile. Trattandosi poi del suo secondo mandato non consecutivo, siamo di fronte a una vittoria straordinaria, favorita anche dal supporto (non solo finanziario) di un personaggio popolare e a tratti ‘geniale’ come Elon Musk.
L’economia era in cima agli interessi degli americani prima del voto. L’inflazione – o quello che lei ha definito spesso “il prezzo delle uova” – ha spinto gli elettori verso i Repubblicani?
Penso proprio di sì, com’era prevedibile. Con l’inflazione la gente comune pensa di aver perso potere d’acquisto. I beni essenziali, le uova appunto, costano di più adesso rispetto a quando c’era Trump. Non è colpa di Biden, ma è così che stanno le cose: agli elettori e alle elettrici che vanno a fare la spesa ogni giorno non interessano i dati macroeconomici che testimoniano il successo della Bidenconomy. Con i Democratici i prezzi sono saliti e Kamala Harris faceva parte dell’amministrazione che non è riuscita a impedirlo. Ovviamente questa è solo una parte della spiegazione, la più contingente, che si somma ad esempio alla questione dei flussi migratori dal Messico (il partito democratico anche in questo caso si sarebbe mosso troppo tardi) e ai mutamenti profondi di cui ho già detto.
Quali saranno secondo lei le conseguenze di questa vittoria?
Trovo interessante e significativo che una delle prime dichiarazioni di Trump sia stata: “Fermerò le guerre”. Certo, vedremo come, ma questo risponde perfettamente a un altro bisogno degli elettori: gli americani sono stufi dei conflitti e per immaginarlo basti pensare a tutti quelli che hanno perso negli ultimi 40 anni. Si aprirà una fase in cui dovremo fare i conti con il disimpegno dell’America dallo scenario internazionale e in particolare europeo. Un disimpegno che non inizia certo oggi, ma che risale già alla presidenza Obama: probabilmente con Trump sarà più repentino, mentre con Harris sarebbe continuato in maniera più morbida. Noi europei, per tanto tempo, ci siamo cullati nell’idea di poter investire sul welfare e non sulla sicurezza perché tanto a quella ci avrebbero pensato gli Usa. Con Trump non sarà più così. Ci tengo a sottolineare però anche un’altra cosa riguardo al futuro: la democrazia americana ne ha viste di tutti i colori negli ultimi 250 anni e ha sempre resistito. Ci sono state elezioni presidenziali contestatissime come quelle del 1876 – tra il repubblicano Hayes e il democratico Tilden – che portarono poi al compromesso del 1877 e quindi ebbero conseguenze molto gravi. Nonostante questo, la Costituzione americana rimane una creatura talmente complicata che neanche un presidente con la maggioranza al Congresso potrà arrivare a demolirla. Posso sbagliarmi, ma non credo che domani ci ritroveremo con un sistema autoritario.