Dimmi in che azienda lavori e ti dirò se puoi farlo da casa. Lo smart working italiano resiste, ma il merito è principalmente delle grandi aziende, secondo i numeri pubblicati dall’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. Cifre che certificano allo stesso tempo che lo smart working non è ancora arrivato a fine corsa.
“Negli ultimi mesi, a causa dell’eliminazione degli ultimi obblighi normativi sullo smart working e della scelta di alcune grandi multinazionali di far tornare i propri lavoratori totalmente in presenza, si è decretata prematuramente la fine dello smart working”, spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working.
Le misure di smart working semplificato in Italia non ci sono più e i datori di lavoro non hanno obblighi da seguire, ma il numero di lavoratori da remoto rimane stabile, con un leggero calo: 3,55 milioni rispetto ai 3,58 milioni del 2023 (-0,8%).
La fine delle misure in realtà pesa soprattutto sulle realtà più piccole. Lo smart working cresce solo nelle grandi imprese, dove coinvolge quasi 2 milioni di lavoratori (1,91 milioni, +1,6% sul 2023), vicino al picco della pandemia. Il 96% delle grandi organizzazioni hanno ormai consolidato le loro iniziative.
Ma i numeri del lavoro da remoto calano in maniera sostanziale nelle pmi, passando a 520mila lavoratori dai 570mila dell’anno scorso, mentre resta sostanzialmente stabile nelle microimprese (625mila nel 2024, 620mila nel 2023) e in leggero calo nella Pa (500mila nel 2024, 515mila nel 2023).
“Nelle piccole realtà la fine dell’obbligo dello smart working per i lavoratori fragili ha riportato in ufficio molti lavoratori, probabilmente perché questo modello organizzativo è ancora visto, prevalentemente, come uno strumento occasionale di conciliazione tra vita privata e lavorativa e non come una vera e propria innovazione nell’organizzazione del lavoro”, spiega ancora Corso.
Le previsioni
Per chi lavora in una pmi e spera di lavorare da casa, non ci sono buone notizie neanche per il prossimo anno: solo l’8% degli intervistati dall’Osservatorio ipotizza un aumento dello smart working, mentre tutti gli altri sono ottimisti, tanto che radunando i dati l’Osservatorio per il 2025 prevede una crescita del +5%, che porterebbe a toccare 3,75 milioni di persone. Principalmente grazie alle grandi imprese, ma anche alla Pa, che sta implementando le sue iniziative.
Quanti giorni si sta a casa?
Ina base a dove si lavora cambia anche il numeri di giorni in cui si può stare lontano dall’ufficio.
Gli smart worker italiani possono lavorare da remoto in media 9 giorni al mese nelle grandi imprese, 7 nella pubblica amministrazione e 6,6 nelle pmi.
Chi tornerebbe in ufficio?
Il 73% dei lavoratori da remoto si opporrebbe se la propria azienda eliminasse le pratiche di lavoro da remoto di cui godono ora.
Il 27% penserebbe seriamente di cambiare lavoro, il 46% si impegnerebbe per far cambiare idea al datore di lavoro. Sempre secondo i lavoratori, per cercare di compensare almeno in parte la mancata possibilità di lavorare da remoto, l’azienda dovrebbe offrire una maggiore flessibilità oraria o aumentare lo stipendio di almeno il 20%.
Tra chi è tornato in totale presenza dopo aver lavorato da remoto, solo il 19% lo ha fatto per scelta personale, perché non ha più la necessità di lavorare da remoto o semplicemente preferisce socializzare con i colleghi in presenza, il 23% ha una nuova mansione non svolgibile da remoto, mentre per la grande maggioranza (58%) è stata una decisione presa dall’azienda.
La settimana corta
Intanto la pratica della settimana corta ancora non prende piede, e viene adottata effettivamente da meno del 10% delle aziende.
I modelli e le pratiche sono molto diversi, dalla settimana compressa ai venerdì breve, talvolta applicati solo in determinati periodi dell’anno, o una rimodulazione dell’orario lavorativo riservate a specifici profili di lavoratori, come quelli su turni. Il miglioramento della produttività non figura tra le principali motivazioni dichiarate.
Da notare invece il fenomeno dell’International Smart Working: “Un fenomeno praticato nel 29% delle grandi imprese e che permette di impiegare persone che risiedono all’estero, siano esse di nazionalità straniera o italiana”, dice Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio. A limitare la diffusione di avere dipendenti ‘internazionali’ è la difficile gestione fiscale e previdenziale per metà delle organizzazioni che hanno progetti attivi. Una volta avviata l’iniziativa, il principale rischio percepito dalle aziende è la perdita di senso di appartenenza e la riduzione dell’engagement (per il 57% delle grandi imprese), mentre per il 46% delle pmi la preoccupazione è soprattutto la gestione in sicurezza dei dati.
Lo smart working per ordinanza
La possibilità di utilizzare lo smart working quando è più necessario è tornata al centro dell’attenzione, recentemente, per Roma, in vista del Giubileo. Un paio di accordi su dipendenti pubblici e privati sono stati già presentati dall’amministrazione capitolina.
“Lo trovo un esempio intelligente di utilizzo dello smart working per garantire resilienza a fronte di eventi particolari”, dice Corso. “Così come durante la pandemia, anche nel caso di grandi eventi o problemi legati al cambiamento climatico, avere leve per spostare l’equilibrio tra lavoro in presenza e lavoro remoto è fondamentale. Ricordo da questo punto quello che si fece a Genova in occasione del crollo del ponte Morandi, quando imprese e PA assieme lavorarono per aumentare il ricorso allo smartworking migliorando così vivibilità alla città. Un esempio da seguire facendo leva non tanto su obblighi, ma sulla responsabilità sociale di organizzazioni e lavoratori”.