Si fa un gran parlare di momenti di “Team Building”, di apertura ai colleghi e alle loro debolezze, di lavoro di squadra. Ma poi, c’è una sorta di “paracarro” psicologico su cui rischiano di infrangersi anche i migliori propositi sul luogo di lavoro. Ed è la capacità di comprendere, metabolizzare e soprattutto perdonare eventuali errori, magari anche veniali, da parte di un collega.
Solo attraverso il perdono si possono gettare le basi per una migliore collaborazione futura. Anche perché se non si passa sopra a qualcosa che non ci ha fatto particolarmente piacere, in ambito lavorativo (e non solo) diventa più difficile creare un ambiente di lavoro e un team in cui tutti possano sentirsi davvero realizzati. Con conseguenti migliori risultati in termini di performance.
Tutto vero, tutto giusto. Ma a volte non è facile comprendere l’errore, indagarne le ragioni e soprattutto passarci sopra e riprendere come se niente fosse. Ebbene, meglio riflettere su queste situazioni. E ricordare che il perdono, alla fine, fa bene non solo a chi lo riceve, aiutandolo a comprendere lo sbaglio. Ma anche a chi lo concede.
E’ una morale positiva, con un profondo significato per l’organizzazione del lavoro e una chiave di lettura di genere, quella che emerge da una ricerca coordinata da due esperti dell’Università della California di Riverside, Miachel Haselhuhn e Margaret E. Ormiston. Lo studio, pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, è una sorta di inno alla concordia.
Ed è dedicato soprattutto agli uomini, visto che il senso della propria mascolinità rischia di diventare una variabile importante nel definire l’indulgenza nei confronti degli altri che sbagliano. L’indagine psicologica degli esperti, segnalando il bias di genere che vede il maschio meno propenso ad essere indulgente, ha concentrato l’attenzione proprio sui maschietti.
E soprattutto, ha proposto una serie di interventi psicologici che possono in qualche modo rendere più malleabile e disposto ad accettare gli sbagli anche il più inflessibile dei colleghi.
Lo studio ha preso in esame cosa accade in poco meno di mille persone, partendo dalla valutazione di eventi che potevano in qualche modo influire sulla loro percezione di mascolinità, come una compagna maggiormente riconosciuta economicamente per la sua professione o magari farsi veder piangere da un figlio.
A quel punto, sul fronte del lavoro, si sono tirate le somme simulando situazioni in cui un collega aveva creato le condizioni per un “misundestanding” professionale. E si è visto che chi voleva essere più “macho” tendeva a ricercare la vendetta o comunque evitava di avere rapporti con il collega. Più risentiamo che desiderio di metterci una pietra sopra, insomma.
Strategia psicologica di recupero per queste persone? Riportare almeno due esperienze in cui si sono sentiti veri uomini, magari perché avevano superato gli avversari in una competizione. Sia chiaro: si tratta solamente di tentativi, anche perché quando si è andati in cerca di un numero più elevato di momenti della vita in cui si è davvero comprovata la propria “mascolinità”, per alcuni dei partecipanti è stato difficile metterli in fila nella memoria.
Eppure anche questo sarebbe significativo: stando allo studio, infatti, chi non ha la reale percezione di un proprio essere “forte” avrebbe poi maggiori difficoltà a perdonare.
Detto tutto questo, rimane un aspetto che non deve essere sottovalutato. Il perdono aiuta l’organizzazione. Perché fa sentire meglio gli altri ed anche chi rivela la propria indulgenza, magari lasciando da parte stereotipi che non sono propriamente ottimali nel lavoro in team. Ma soprattutto aiuta il benessere psicologico. Non dimentichiamolo!