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L’hub in Albania: una buona idea tra resistenze togate e non solo

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Velasco25 Articolo

La vicenda del centro migranti in Albania ha due facce. È bene affrontarle entrambe perché l’immigrazione ha sempre ricadute anche economiche, e l’ingorgo tra giustizia e politica è gravido di conseguenze anche sull’attrattività del sistema Paese. È vero che il mercato del lavoro ha bisogno di forza lavoro ma in Italia, in base ai decreti flussi, si entra con un contratto, lo prescrive la legge. Se non hai un contratto e non hai diritto d’asilo, sei un clandestino.

Partiamo dal bicchiere mezzo pieno: condivisibile o meno che sia, l’idea del governo Meloni di esternalizzare presso Paesi terzi (l’Albania ha appena avviato i negoziati formali per l’adesione all’Ue) si sta facendo strada in Europa. Con il protocollo Roma-Tirana si inaugura un “modello” di cui l’Italia è pioniera. Anche i governi socialisti di Malta e Danimarca intendono replicare tale accordo, il premier inglese laburista Keir Starmer ne ha fatto oggetto di un approfondito colloquio con la presidente Giorgia Meloni, ci sono almeno quindici Paesi europei interessati a dislocare all’estero le procedure relative alla verifica dello status dei migranti. Per citare alcuni casi: l’Olanda ne sta ragionando con l’Uganda, la Danimarca con il Kosovo. Al vertice straordinario, convocato da Meloni a Bruxelles la scorsa settimana, ha partecipato anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen che ha espresso apprezzamento per gli “hub di rimpatrio” intesi come uno strumento nuovo in grado di esercitare la deterrenza e gestire il fenomeno migratorio, di per sé epocale, secondo la logica della difesa dei confini esterni europei (e non della “redistribuzione”, così penalizzante per l’Italia in questi anni).

Qualcuno ne lamenta gli elevati costi e cita persino l’ipotesi di danno erariale. A ben vedere, i circa 800 milioni di euro destinati ai due centri albanesi sono poca cosa rispetto ai quasi 5 miliardi l’anno, il costo dell’“accoglienza diffusa” applicata dai governi precedenti e foriera di gravi problemi di sicurezza e ordine pubblico.

Veniamo allora alla faccia oscura della vicenda. Il debutto albanese non è stato trionfante: solo sedici migranti di cui quattro presto rimandati in Italia (due soggetti presunti minorenni e due vulnerabili). Le commissioni territoriali, in tempi rapidi, hanno respinto le richieste di asilo per mancanza dei requisiti ma, a questo punto, si è inserita la “variabile giudiziaria”. Il giudice italiano (sezione immigrazione del tribunale di Roma), richiamando una decisione della Corte di giustizia europea, ha annullato il trattenimento dei dodici impedendo dunque il rimpatrio verso i i Paesi di provenienza, Egitto e Bangladesh, ritenuti – dal giudice – “non sicuri”. Con dodici provvedimenti copia-incolla, il tribunale dunque ha impedito l’applicazione del protocollo siglato dal Governo italiano e, cosa a dir poco discutibile, ha rigettato la definizione di Paese sicuro stilata da un decreto interministeriale (Esteri, Interni e Giustizia). Per queste ragioni, il governo Meloni, già nelle prossime ore, dovrebbe adottare un decreto legge con una lista di “Paesi sicuri” da aggiornare ogni sei mesi.

Non sappiamo se basterà, e tuttavia tocca evidenziare un paio di astruserie. Anzitutto, la Corte di giustizia Ue fissa un criterio di sicurezza “generalizzato”, che riguardi ciò tutte le categorie di persone. Posta in questi termini, capite bene che neanche l’Italia né gli Stati uniti né la Francia possono essere considerati Paesi sicuri. Come ritenere tali i Paesi dove operano strutture di criminalità organizzata (seppure solo in talune aree) o dove vige la pena di morte (seppure solo in taluni stati americani) o dove brigatisti pluricondannati hanno trovato accoglienza? In Egitto le persone vanno in vacanza, eppure per qualche giudice sarebbe un Paese insicuro. La verità è che in Europa i governi si muovono in ordine sparso, la Germania per esempio considera l’Afghanistan un posto sicuro ma nessun giudice tedesco si è opposto alla valutazione politica del governo di Berlino. In Italia invece, come emerge anche dalla lettera di una toga di Magistratura democratica puntellata di giudizi gravissimi contro la premier italiana, ci sono magistrati che si considerano investiti di una missione extra giudiziaria.

Nei dodici provvedimenti che hanno annullato il trattenimento dei dodici immigrati irregolari si citano i pericoli che singole categorie di persone correrebbero in Egitto e Bangladesh: sfollati climatici, attivisti politici, appartenenti alla comunità LGBTQ+. Capite bene che, se si applicassero questi criteri, nessun Paese africano potrebbe dirsi sicuro e l’Italia sarebbe obbligata ad ospitare sul proprio territorio tutti gli immigrati che arrivano, ancorché privi del diritto d’asilo. Un bel guazzabuglio. Secondo il giudice italiano, se singole categorie sono esposte a un qualche pericolo, nessuno può essere rispedito indietro. Non sappiamo se tra i dodici ci siano omosessuali o oppositori di Al Sisi, ma la decisione vale per tutti. Viene da domandarsi come un governo democraticamente designato possa applicare le politiche migratorie per le quali i cittadini hanno votato se poi basta così poco per svuotare le decisioni politiche assunte dall’esecutivo. È una questione delicata, da maneggiare con cura non solo per il governo attuale ma anche per quelli che verranno.

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