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Oltre il tramonto dell’Occidente: la perdita di volontà e capacità egemoniche

Dopo un secolo di dominio, caratterizzato dalla promozione della liberaldemocrazia e dell’economia di mercato, l’Occidente sta perdendo la sua capacità di influenzare il sistema internazionale.

Possiamo leggere l’intera storia novecentesca come il tentativo, riuscito, da parte delle liberaldemocrazie di imporre la propria egemonia sul sistema politico internazionale, affermandosi prima contro le autocrazie e poi contro i totalitarismi. Si è trattato di un’impresa che è lecito definire epica, considerando la diffusione limitatissima e geograficamente e culturalmente concentrata di questo tipo di regimi, che hanno però definito il mondo in cui ancora adesso viviamo. Molto più che la leadership di un singolo Paese – prima l’Impero britannico poi gli Stati Uniti d’America – l’affermazione dell’Occidente ha significato la sua capacità di definire e imporre lo standard, il benchmark, la pietra di paragone della modernità politica. In questo senso il Novecento ha rappresentato il culmine di un cammino iniziato con la rivoluzione razionalista e proseguita con l’Illuminismo e il successo dei regimi liberaldemocratici ne è stato il suggello politico-istituzionale.

Sottolineo questi aspetti non per vuota vanagloria occidentale e neppure nella convinzione insostenibile della loro perennità, ma semplicemente per illustrare come l’egemonia dell’Occidente sia stata davvero tale quando quest’ultimo si è identificato totalmente nella triade dei suoi obiettivi: società aperta, liberaldemocrazia ed economia di mercato.

Di conseguenza, l’appannamento effettivo della sua leadership, che è sotto gli occhi di tutti, non può non assumere connotati importanti, potenzialmente drammatici, ed è in grado di stravolgere il mondo per come lo abbiamo conosciuto fin da quando il sistema degli Stati europei (che tutto potevano essere tra Cinquento e Seicento tranne che liberali) ha cominciato a intesserne l’unità. Detto in maniera ancora più esplicita, è la perdita di volontà e capacità egemoniche occidentali in termini culturali e istituzionali a rappresentare il maggior fattore di cambiamento potenziale del mondo in cui viviamo.

È la contestazione del soft power occidentale e del suo essere il custode ultimo della maestria dell’indirizzamento e del funzionamento delle istituzioni internazionali – mai così numerose, incisive e fitte come a partire dalla seconda metà del secolo scorso – a costituire il tratto di discontinuità maggiore tra il presente (e il futuro) e l’immediato passato. Ben più che la diversa distribuzione relativa delle capacità economiche e militari, è la perdita di egemonia culturale ciò che dovrebbe maggiormente preoccuparci. Tanto più mentre anche sul fronte interno la stabilità politico-istituzionale delle nostre società è minacciata dal perdurare di inaccettabili concentrazioni di ricchezza che aspirano a divenire incontrollate concentrazioni di influenza e potere e dall’artificioso revival di tentazioni sovraniste e identitarie, che non si arrestano neppure sulla soglia di potenziali conflitti civili: ribaltando, cioè, il sogno liberale di rendere l’anarchia arena internazionale più simile ai regolati sistemi domestici delle democrazie.

 

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