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Intervista a Blangiardo: “Contro la denatalità più gratitudine per chi fa figli”

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“Non esistono soluzioni magiche per invertire il trend della natalità. Le singole misure non bastano: serve una strategia complessiva”. Gian Carlo Blangiardo, docente emerito di Demografia all’Università Bicocca di Milano ed ex presidente dell’Istat, fornisce numeri e previsioni sullo scenario demografico italiano. E avverte: “Il cambiamento demografico può costare all’Italia 500 miliardi di Pil in quarant’anni”. 

Secondo le previsioni di Morgan Stanley, l’invecchiamento della popolazione europea potrebbe ridurre il Pil dell’Eurozona del 4% entro 2040. L’Italia sarà il Paese che più risentirà di questo declino. È una previsione realistica?

Ho provato a calcolare il Pil dell’Italia da qui a 40 anni, inserendo nell’equazione la popolazione prevista per il 2064 e la proporzione di persone in età lavorativa, mantenendo fermi gli altri fattori. Il solo cambiamento demografico comporta per l’Italia una perdita di 500 miliardi di euro di Pil, rispetto ai circa 1.900 miliardi del 2022. Se si estende il calcolo all’Unione europea nel suo complesso, è probabile che la previsione non sia così distante dalla realtà. 

In un periodo di grave incertezza economica e riduzione del potere d’acquisto, quali misure servirebbero per implementare un’efficace politica per aumentare i tassi di natalità? Manca una strategia complessiva?

Ho verificato se esistesse, nei diversi Paesi europei, una correlazione fra il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna, e la presenza di sussidi economici alle famiglie che mettono su famiglia. La correzione è nulla. E lo è anche laddove siano previsti più giorni di congedo parentale, maschile e femminile. Questi dati ci dicono che le misure di sostegno, prese singolarmente, servono a poco. Serve un insieme di iniziative che incida sul denaro, sulla conciliazione fra vita e lavoro e sulla cura. E poi c’è anche l’elemento culturale: potrebbe essere d’aiuto una società che mostra gratitudine per quelli che fanno lo sforzo di mettere al mondo dei figli. Serve un sforzo comune, non solo da parte dello Stato, per invertire i trend in atto. 

L’immigrazione può rappresentare un valido strumento per affrontare il calo della popolazione in età lavorativa?

Può giocare un ruolo importante, ma non risolutivo. Dovremmo imparare a non subire l’immigrazione, ma a governarla, orientando i flussi anche in funzione dei bisogni del sistema produttivo. Con numeri ragionevoli, però. Se infatti volessimo compensare la carenza di popolazione in età lavorativa solo coi flussi migratori, avremmo bisogno di 500mila unità annue. Una follia, perché non saremmo in grado di creare le condizioni per l’integrazione. Dobbiamo usare la manodopera straniera, ma al contempo garantire condizioni di vita dignitose. Con numeri eccessivi, il processo di integrazione si complica. Ma abbiamo anche un’altra leva su cui agire, quella femminile. Siamo un Paese con una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro. 

È possibile invertire il trend e con quali risultati? 

Ragioniamo in termini di indice di fecondità: il numero medio di figli per donna, che nel 2023 era di 1,20. L’obiettivo è portarlo il più vicino possibile a 2. Le misure di cui ho parlato prima dovrebbero creare le condizioni favorevoli per perseguire questo risultato. Occorre che ci sia, prima di tutto, un’abbassamento dell’età in cui si concepisce il primo figlio. E, in seconda battuta, bisognerebbe favorire il passaggio dal primo al secondo. In questo modo potremmo portare l’indice a un valore tra 1,5 e 1,7, che sarebbe già un traguardo significativo. 

Quanto contribuisce il fattore demografico nel declino geopolitico dell’Ue?

Incide sicuramente, perché la potenza di uno Stato è data anche dal suo peso demografico. La questione è avere un ruolo economico importante nello scenario globale; l’Europa ce l’ha ma per mantenerlo dovrà faticare, considerando l’attuale andamento demografico. Sta cambiando inoltre la struttura della popolazione: più anziani vuol dire più servizi orientati alla popolazione matura e meno investimenti per il futuro, che alimentano la domanda e una certa vivacità. Come avvenne in Italia negli anni del Boom. 

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