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Silvia Console Battilana, una business woman nella Silicon Valley

Organizza aste multimiliardarie in ogni settore ed è oggi una delle donne più affermate al mondo nel suo campo. Silvia Console Battilana, friulana di origine ma residente negli States da anni, è la Ceo di Auctionomics, azienda fondata insieme al premio Nobel per l’Economia Paul Milgrom che progetta, gestisce e coordina aste ad alto rischio per governi e multinazionali mettendo in pratica i loro algoritmi sul settore.

Come è nata la Auctionomics?

Con la crisi finanziaria del 2008 il treasury americano aveva in seno circa un trilione di stress asset di tutte le banche che stavano fallendo e, per cercare di gestirle, aveva deciso di indire un’asta. Così, per mettere in piedi questa idea, hanno contattato Paul Milgrom e John Levin, ora divenuto presidente della Stanford Graduate School of Business. Paul aveva una licenza che avrebbe potuto utilizzare per partecipare e quindi era alla ricerca di soci d’affari con cui fondare una società. Io al tempo, come studentessa, l’avevo affiancato in un altro progetto universitario nel quale era andata molto bene la collaborazione, inoltre ero l’unica con Phd che ne capiva di matematica e aveva già una sua azienda, più piccola ovviamente, ma che vantava comunque una esperienza nel business. Per questo motivo Paul mi invitò al Coupa Caffè, un bar che è leggenda da queste parti perché, sembra un cliché, ma tutti vanno lì se vogliono fare affari nella Silicon valley. Oggi mi vien quasi da sorridere, ma è nata in questo modo Auctionomics: davanti ad un caffè.

È stato un percorso in salita?

Inizialmente è stato un po’ difficile perché non c’era nessuno che vantava una vera e propria esperienza di business ma la grande differenza tra la Silicon Valley e l’Italia è che negli Stati Uniti se sei giovane si tende a puntare su di te, ti viene detto che ce la puoi fare. Qui non interessa l’esperienza, interessa quello che vedono nella tua personalità. Purtroppo nel nostro Paese è ancora difficile che accada. Pensi che quando ho fondato la mia società stavo finendo il Phd, quindi probabilmente avevo ventisei o ventisette anni. All’inizio, non avevo mentori né guide, improvvisavo perché non avevo un’idea chiara su come procedere.

Quali sono state le più grandi difficoltà che ha dovuto affrontare?

Le difficoltà più grandi le ho trovate in città come New York e Washington, dove ho riscontrato un ambiente molto maschilista. Soprattutto quando ero giovane e inesperta è stato abbastanza complesso. Per qualsiasi donna che si trova in un settore prevalentemente gestito da uomini credo che la cosa più importante sia capire subito quali di questi supportano le donne e renderli degli ‘alleati’. Ce ne sono, bisogna solo individuarli e affiancarsi a loro. Io ho sempre fatto così.  Su Paul, ad esempio, ero tranquilla in tal senso, sapevo che sarebbe stato un buon business partner perché lui è sposato con una donna molto forte.

Lei vive negli Stati Uniti, ma è cresciuta in Italia. Quali sono le differenze tra le due realtà per una business woman?

Come anticipavo prima, nella Silicon Valley puntano molto sui giovani e quello che conta davvero è dove hai studiato e quanto sei ambizioso. Se hai un’idea grande, quasi mi verrebbe da dire megalomane, è perfetto perché ti supportano. Negli Usa è più facile fare business. In Italia, invece, probabilmente, non avrei potuto essere la leader di una casa d’aste multimiliardaria sin dall’inizio. Pensi che quando dovevo incontrare dei clienti nel nostro Paese, nei primi incontri decidevo di esprimermi in inglese perché essere la Ceo di una società americana che parla in una lingua straniera mi garantiva maggiore considerazione da parte dell’interlocutore. Solo in seguito, una volta stabilita la mia authority, invertivo la lingua. Ormai, dopo tanti anni non ho più problemi in tal senso, ma sempre all’inizio, quando ero in riunioni internazionali, dove si viveva anche lì spesso un approccio un po’ da ‘gorilla’, parlavo sempre per prima per affermare la mia leadership. Anche in America, in fondo, se le ragazze hanno una spiccata leadership o mostrano forza vengono ancora chiamate ‘bossy’, mentre i maschi vengono definiti semplicemente dei ‘good leader’.

È ancora possibile realizzare l’american dream negli Usa e perché in Italia invece è così difficile?

In America se qualcuno eccelle in qualcosa viene spinto alle stelle. Un elemento davvero positivo che aiuta nel lavoro ma che nasconde anche un suo lato buio ovviamente. Negli States la cultura è molto più individualistica, ci si sente spesso soli e non vi è un grande senso di comunità. In Italia invece vige ancora una cultura di gruppo e un sistema sociale più resistente. La seconda differenza è il sistema legale. In Silicon Valley ci si rispetta tutti e se fai qualcosa di scorretto hai bruciato l’intero network. E, soprattutto, se infrangi la legge c’è un sistema legale abbastanza rapido a cui appellarsi. In Italia invece è lento. Quindi ti fidi solo delle persone più vicine. Per questo motivo, il Made in Italy delle grandi società familiari, che è stato studiato anche da ambienti internazionali, è un sistema di fiducia essenziale che ancora regge. Importante infine è la burocrazia. Negli Usa puoi aprire una società online in quindici minuti, da noi i tempi sono lunghissimi.

Secondo lei cosa servirebbe in Italia per incrementare l’empowerment femminile?

I media possono fare tanto perché quando si parla di donne che hanno una carriera e allo stesso tempo sono anche mamme danno un messaggio di cambiamento importante a chi legge o li ascolta. Purtroppo sono ancora troppe oggi le ragazze che sentono di dover fare una scelta tra l’una e l’altra strada. Ma non è così. La seconda cosa essenziale che si dovrebbe fare, secondo me, è una campagna per migliorare il congedo di paternità. Se già da subito il padre viene coinvolto nella crescita del figlio piano piano sparirà idea che solo la madre debba occuparsi del bambino.

 

 

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