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Il ruolo fondamentale del Public Affairs, parla Patrizia Rutigliano

Come questa attività favorisce il passaggio dallo shareholder allo stakeholder capitalism all’interno delle aziende.
Solitamente quando si parla di attività di Public Affairs si pensa immediatamente alle società di consulenza, eppure il responsabile dell’ufficio di Public Affairs gioca un ruolo cruciale all’interno degli equilibri aziendali. Per approfondire questo tema ci siamo rivolti a Patrizia Rutigliano, membro del consiglio di amministrazione di Acea e Poste Italiane, già presidente di Ferpi e manager con significativa esperienza in settori strategici di aziende pubbliche partecipate e private.

Cosa vuol dire svolgere l’attività di Public Affairs all’interno di un’azienda?
Non vi è dubbio che le società di consulenza in Public Affairs hanno favorito la diffusione di questa professione e sostenuto la crescita del settore in Italia. Un Paese, il nostro, che non ha mai assunto una posizione chiara al riguardo: prova ne sono le numerose proposte di legge (108, mai andate a buon fine) che si sono susseguite nel corso degli anni.

Oggi però le società di consulenza svolgono un ruolo prevalentemente di supporto alle funzioni aziendali preposte, che sono ormai diventate centrali nelle organizzazioni. E questo sia perché si è notevolmente ampliata la platea degli stakeholder delle imprese, non più limitata alle istituzioni e alle associazioni – tant’è che si parla più di corporate che di Public Affairs  – sia perché il contributo apportato all’implementazione delle strategie aziendali è sempre più decisivo, anche in logica di business development. Creare valore per gli stakeholder, shareholder inclusi, è diventato il fine ultimo dell’impresa, la sua identità costitutiva, e i piani di sviluppo aziendali riflettono pienamente questo approccio. Il che però prevede meccanismi di rendicontazione sempre più stringenti, anche in base a quanto richiesto dalle normative comunitarie. E questo mal si concilia con le zone grigie che ancora qua e là emergono in questa professione, creando confusione e fraintendimenti anche nel rapporto tra aziende e stakeholder.

A proposito dell’assenza di regole (o di zone grigie?). Il settore sta attraversando grandissimi cambiamenti anche grazie all’integrazione di numerose innovazioni, secondo lei si riuscirà a raggiungere una regolamentazione dell’attività?
Se le ben numerose proposte non si sono mai tradotte in legge in tutti questi anni, c’è da domandarsi se una legge specifica in materia la si voglia davvero. L’ordinamento italiano è piuttosto ricco e articolato, non abbiamo certo un problema di produzione normativa. E sono parecchi gli aspetti giuridici dell’attività di rappresentanza d’interessi che rientrano o sono toccati, direttamente o indirettamente, anche dalle ultime evoluzioni normative. Dal Codice Appalti alla Legge Capitali, dall’AI Act alla CSRD alla CS3D.  Anche per questo potrebbe essere utile ed efficace partire da una ricognizione di quanti e quali aspetti sono coperti a legislazione vigente e dove siano invece opportuni o necessari correttivi o inserimenti. Per procedere poi, magari, con la creazione di un testo unico. Aggiungere nuove norme non sempre è la risposta, a volte basta far funzionare bene quelle esistenti.

Ha parlato dell’importanza del rapporto con gli stakeholder che ha assunto sempre maggiore rilievo all’interno della Corporate social responsibility, e quindi nella valutazione della sostenibilità aziendale. Tuttavia la componente G di Esg resta sempre un po’ sottovalutata nel dibattito pubblico. Perché?
Non parlerei di sottovalutazione della governance. Da sempre le tre componenti Esg (Environmental, Social, Governance) si alternano periodicamente in termini di importanza all’interno del dibattito pubblico, riflettendo priorità e preoccupazioni della società contemporanea. Di certo l’aspetto ambientale (environment) ha tenuto banco in questi anni per ovvi motivi legati al raggiungimento degli obiettivi di neutralità carbonica ma anche per una crescente sensibilità alle alterazioni climatiche. La pandemia ha riportato al centro la S (social), sostituendo il concetto di welfare con una rinnovata attenzione alla ‘cura’ delle persone e delle comunità e alla valorizzazione delle diversità, diventate un’opportunità più che una mancanza.
La componente governance è sempre stata trasversale, anche alle prime due, ma i lunghi passi fatti dall’Unione europea in direzione dello sviluppo sostenibile poggiano su architetture complesse di regole, finanziamenti e processi. Si pensi solo alla tassonomia e ai criteri stringenti per la valutazione degli investimenti in opere pubbliche e infrastrutturali e alla finanza green. Oltre alla trasparenza, ormai gli obblighi di rendicontazione finanziaria e non finanziaria impongono il rispetto dei criteri Esg nella loro più ampia tripartizione. E questo non fa che rafforzare il legame tra azienda e società, sollevando anche importanti questioni di responsabilità “politica”, in senso lato, per le attività aziendali. E torniamo alla governance, che quindi non può proprio dirsi sottovalutata…

A proposito di governance, si è tornato a discutere del problema della parità di genere all’interno dei Cda. Possiamo dire che lei ce l’ha fatta, non solo è consigliere di amministrazione ma ha sempre operato in settori ritenuti tradizionalmente a vocazione maschile. Qual è la sua visione in merito?
Non è tanto una questione di avercela fatta quanto di evitare che, quando meno ce lo si aspetta, si torni indietro. Sicuramente ho avuto la possibilità di crescere professionalmente in aziende illuminate, che hanno praticato la parità di genere all’interno delle proprie policy fino ad adottarla prima che fosse introdotta a livello normativo. È stata sicuramente una visione lungimirante che, in un caso specifico, quello di Snam, ha addirittura inserito in Statuto la valorizzazione del genere meno rappresentato, puntando sulle politiche d’inclusione e sul valore aggiunto dei benefici che ne possono derivare all’azienda.
Numerosi studi hanno dimostrato che la diversità all’interno dei consigli di amministrazione e un maggiore equilibrio all’interno delle strutture organizzative porta a un modello aziendale più proattivo, a standard di professionalità più alti e soprattutto a un maggiore impulso alla crescita economica.
Naturalmente non si può procedere per assiomi: tali scelte dipendono dalle strategie aziendali, che a loro volta riflettono il contesto, il settore, la fase storica, le opportunità e politiche ben precise. Sta ai manager, che non bisognerebbe più distinguere fra più o meno virtuosi, elaborare il giusto mix. Sicuramente passi avanti, e molti, ne sono stati fatti. Soprattutto negli ultimi anni. Stop and go, nelle fasi di transizione, sono fisiologici. Quel che dobbiamo evitare, alla luce di quanto emerso in fase di nomine di alcune partecipate, è che si rischi di tornare indietro di cento passi invece di correre il rischio di farne uno o mezzo. Perché allora sì che la strada diventa assai lunga e impervia.

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Paideia

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