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Paralimpiadi, la rivoluzione silenziosa. Intervista a Luca Pancalli

luca pancalli

Oggi presidente del Comitato italiano paralimpico (Cip), Luca Pancalli ha contribuito a scrivere un pezzo di storia dello sport italiano per persone disabili. Da quando nel 2000 è diventato presidente della Federazione italiana sport disabili – oggi Cip – di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. “Prima agli atleti paralimpici non era riconosciuta la dignità e le attenzioni di cui godono oggi. Abbiamo avuto una visione strategica per dare struttura e visibilità al movimento”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: alle Paralimpiadi di Tokio 2020 l’Italia ha portato a casa 69 medaglie, di cui 14 ori, il miglior risultato di sempre dopo Roma 1960. Nel momento in cui andiamo in stampa, la compagine italiana si appresta a volare a Parigi per la XVII edizione dei Giochi paralimpici estivi. Ma lo sport “non è solo la medaglia – rimarca Pancalli – è un grande strumento di socialità e benessere psicofisico. Con lo sport insegniamo ai ragazzi a concentrarsi su quello che hanno e non su quello che hanno perso”.

Ci racconta il suo impegno per il movimento sportivo paralimpico?

È un percorso che ha preso il via nei primi anni Duemila e si è completato col riconoscimento da parte del legislatore del Comitato italiano paralimpico come ente pubblico nel 2017. Siamo partiti da una visione chiara: costruire un nuovo modello organizzativo, totalmente rivoluzionario rispetto al passato. La Federazione italiana sport disabili era una casa comune all’interno della quale venivano gestite più di trenta discipline, con tutti i limiti di un’organizzazione del genere. La nascita del Comitato ha suggellato una struttura nuova, più efficiente ed efficace, che ha previsto l’affidamento delle discipline paralimpiche alle corrispondenti federazioni.

A che punto è il processo di istituzionalizzazione dello sport paralimpico?

Abbiamo conseguito risultati importanti, che sono sotto gli occhi di tutti. Abbiamo ottenuto un riconoscimento della dignità dei nostri atleti, accompagnato da una rinnovata attenzione da parte dei media. Anche l’ingresso dei nostri ragazzi nei gruppi sportivi dei Corpi dello Stato è un risultato straordinario. La visione strategica che avevamo in mente venti anni fa è stata realizzata, ma non è detto che sia un approdo definitivo.

Com’è cambiata negli anni la percezione della disabilità?

È cambiata moltissimo. Io ho fatto l’atleta per tanti anni prima di diventare dirigente e posso assicurarle che non godevamo di grande considerazione. La Federazione italiana sport disabili faceva parte del Coni. Abitavamo quindi nella casa dello sport italiano, ma con un’organizzazione che non ci consentiva di accendere i riflettori sul nostro movimento né tantomeno di crescere dal punto di vista politico e sportivo. Per questo abbiamo creato un ente parallelo e lo abbiamo posto a lato dei fratelli maggiori olimpici. Il mondo paralimpico è il paradigma di ciò che vorremmo accadesse nella società: lo sport che si fa strumento di trasformazione sociale. Noi diamo ai nostri ragazzi l’opportunità di guardare a ciò che hanno e non a ciò che hanno perso. Trasformiamo le debolezze in abilità.
E molti di loro diventano dei grandi atleti.

Sono più difficili da abbattere le barriere architettoniche o quelle culturali?

La barriera architettonica è un ostacolo fisico e in qualche modo lo si supera. L’ignoranza e la maleducazione invece sono difficili da eradicare. Servono investimenti importanti nella scuola e nella formazione. Ma questo è un discorso che non vale solo nei confronti delle persone disabili, ma di tutte quelle che si trovano in una condizione di debolezza, dettata da una società che corre in fretta e spesso si dimentica di chi resta indietro.

Quali sono oggi le priorità del Comitato?

Dal punto di vista tecnico e sportivo abbiamo raggiunto un modello organizzativo molto performante. La priorità adesso è garantire
la fruibilità dello sport nelle scuole e promuovere il diritto allo sport per tutti, a qualsiasi livello. Ci sono tanti ragazzi con disabilità che magari guardano i campioni in televisione e ne sono ispirati, ma poi nella loro città non hanno accesso agli strumenti per fare attività sportiva. Serve un’offerta qualificata. E la situazione dell’impiantistica in Italia, soprattutto nelle scuole, è disastrosa.

Pochi anni fa i primi atleti paralimpici sono stati contrattualizzati dai gruppi sportivi delle Forze dell’ordine.

Ci abbiamo messo vent’anni per raggiungere quest’obiettivo. All’epoca era inimmaginabile che una persona non vedente o in carrozzina fosse arruolata come agente tecnico della Polizia. Ho fatto una fatica enorme perché quasi nessuno ci prendeva sul serio. Dietro questo risultato c’è un messaggio straordinario: se i Corpi dello Stato hanno saputo abbattere una barriera culturale che sembrava inscalfibile, e hanno accolto le persone con disabilità, perché non può fare lo stesso la società nel suo insieme? Oggi il 70% delle persone disabili non lavora. Per questo non ci fermeremo al risultato sportivo. Vogliamo contribuire a fare dell’Italia un Paese migliore. Il movimento paralimpico è stato a mio avviso il principale elemento di novità della società italiana negli ultimi decenni. Una rivoluzione culturale silenziosa, portata avanti non con proteste e slogan, ma con lavoro, visione, politica del fare.

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