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Space awareness e genius loci, l’impatto invisibile della rigenerazione urbana

Intervista ad Andrea Granelli, fondatore e Ceo di Kanso: “I manager delle aziende devono evolvere da figure di controllo a figure di relazione, da esperti di numeri a esperti di persone”.

Partiamo dalle cartografie del Medioevo. A primo impatto ci fanno sorridere, con le loro proporzioni anomale, le nazioni troppo grasse, troppo magre, troppo curve. Eppure, in quelle mappe cartacee abita la stessa intuizione che sta orientando, proprio adesso, lo sviluppo di nuove app in tutto il mondo e che player come Gartner e Gallup considerano determinante per abilitare il cambiamento: l’idea che a connotare i luoghi non siano solo le caratteristiche oggettive, quanto piuttosto la loro capacità di rappresentare opportunità arricchenti di relazione e di esperienza. “Una mappa nel Medioevo non intendeva rappresentare la forma della terra, ma elencare le città e i popoli che si potevano incontrare”, scriveva Umberto Eco.

Il loro obiettivo era, dunque, quello di orientare gli utenti nella scelta del tipo di community a cui aderire, luogo per luogo. Allo stesso modo, oggi, le app dichiarate cool vendor da Gartner – tra cui Myspot, piattaforma tecnologica tutta italiana – vengono scelte proprio per la loro capacità di “coniugare la mappatura dei luoghi con il loro coefficiente di engagement”, per la prima volta misurato e profilato secondo parametri da sempre considerati intangibili: gli interessi personali dei professionisti, la compatibilità tra l’utente e le diverse esperienze accessibili, la corrispondenza dei perimetri tematici e del palinsesto di attività. È come se il potenziale dello spazio si lasciasse intuire da sempre, ma solo oggi riuscisse a trovare la propria dimensione di piena accessibilità. O almeno, questa è la sfida che abbiamo davanti.

Su questo tema ho voluto coinvolgere Andrea Granelli, Ceo di Kanso. “Lo spazio è il φάρμακον (phármakon) della nostra epoca. Cura e veleno, allo stesso tempo”, ha detto Andrea. “Cura, se saremo in grado di abilitare la dimensione della space awareness, quella consapevolezza dello spazio e della sua natura potentissima e composita che ci mette nella condizione di scegliere. Veleno, se culleremo l’illusione di abitare lo spazio nel modo in cui lo abbiamo fatto finora, ignorando il cambiamento profondo che è in corso. I manager delle aziende” ha aggiunto “devono evolvere da figure di controllo a figure di relazione, da esperti di numeri a esperti di persone. La sfida del lavoro non è la presenza o la distanza: l’intero sistema si misura ormai in base a quella che i greci chiamavano eudaimonia, ossia la particolare felicità che si lega al senso specifico di una prospettiva, ad uno scopo”. Secondo la market guide appena pubblicata da Gartner, oltre il 77% delle persone d’azienda vorrebbe poter adottare un modello di lavoro ibrido e distribuito. Il Novecento, che Walter Pedullà ha definito come il secolo che più di ogni altro si è mosso “dalle periferie al centro”, ha lasciato il posto ad un movimento uguale e contrario che – in tutti gli ambiti della società – ribalta il flusso e propone una nuova formula di unicità: non più blocchi monolitici, ma la composizione di esperienze diverse.

E questo vale nelle piccole dimensioni, come nelle grandi. Sistemi complessi di organizzazione sociale dismettono le proprie strutture centrali – quelle che obbligavano alla migrazione di cui parla Pedullà – e trovano invece pieno compimento nella connessione di elementi distinti, di spazi diffusi, di esperienze interlacciate. “Siamo chiamati oggi a costruire una nuova cultura dello spazio che lo restituisca alle nostre scelte in tutto il suo potenziale, che comprende diversi luoghi fisici che si integrano e si completano con altrettanti digitali e che si compongono di volta in volta in soluzioni differenti, in base ai bisogni e alle opportunità. Per questo non amo la parola ‘ibrido’, che per definizione mette insieme cose che insieme non dovrebbero stare. Preferisco parlare di dimensione anfibia, ossia di due vite che coesistono e che si arricchiscono vicendevolmente, generando armonia e non conflitto. Se iniziamo ad entrare in questa dimensione il potenziale dello spazio è davvero infinito – pensiamo alle possibilità di riattivare l’esperienza itinerante dei grand tour ottocenteschi, all’opportunità di dare accesso a tecnologie di alto profilo, al bisogno di valorizzazione il genius loci dei diversi territori – altrimenti è come dare una pistola in mano ad un bambino. Rischiamo di farci male”. Un esempio di difficile e controversa gestione del cambiamento riguarda – all’interno del grande tema della rigenerazione urbana – il recente trend che vede la trasformazione brutale di enormi spazi d’ufficio in soluzioni residenziali.

Negli Stati Uniti sono 55mila gli edifici già convertiti dall’inizio dell’anno e, nella sola città di New York, quasi il 50% delle opere di rigenerazione è inscritto all’interno del fenomeno Office to Residential. Convertire in case milioni di metri quadri di spazi di lavoro è una soluzione drastica che, aldilà dello sconvolgimento dell’equilibrio urbano, rischia di mettere a nudo una certa miopia a lungo termine. Non tiene conto, per esempio, che sebbene molti grandi asset di aziende siano sotto-utlizzati o parzialmente vuoti, la domanda di spazi di lavoro duttili, capillari e diversificati è cresciuta esponenzialmente. Le persone che non vanno in ufficio – determinando lo svuotamento degli edifici – sono le stesse che, a vario titolo e in vario modo, cercano spazi alternativi in cui lavorare, con soluzioni di prossimità e di valore aggiunto. Le dimensioni della domanda non sono dunque diminuite, stanno semplicemente cambiando forma.

“Ripensare la destinazione di un luogo – ha commentato Andrea Granelli – è tutt’altro che un’attività funzionale. Porta in sé un valore che potremmo definire “sacro”, che ha a che fare con i riti di fondazione delle città, da sempre connessi ad una dimensione non soltanto pratica, ma anche immateriale, culturale, di senso. Pensare di modificare in modo così strutturale la vocazione di un territorio, senza un opportuno percorso di evoluzione, significa rompere di netto il legame che lega il singolo spazio al proprio contesto, stravolgere completamente quei tiranti invisibili che tengono unita e coesa una comunità”. Ridisegnare, invece, quegli stessi spazi in una logica di condivisione aperta, immettendoli in una rete nazionale, permette di mantenere intatto l’equilibrio sociale dei diversi luoghi, aumentando sostanzialmente i punti di accesso e di esperienza per le diverse persone. Non soltanto nelle grandi città, ma anche e soprattutto nei piccoli comuni, nei territori interni e di confine, dove un asset centrale di un’unica organizzazione rischia di svuotarsi e trasformarsi in un costo per la collettività, mentre – se connesso con altri e reso accessibile a tutti gli attori territoriali – diventa un volano economico e un moltiplicatore di valore.

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