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Joe Biden e il cervello che invecchia, tra gaffe e presunte diagnosi

Joe Biden

Non c’è pace per il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, risultato positivo a Covid-19. Il suo stato di salute è al centro dell’attenzione, non solo negli Usa: ci si interroga sulle sue capacità di guidare il Paese, alla luce delle ripetute gaffe che ha collezionato nelle ultime settimane. Ma nel caso di Joe Biden abbiamo un quadro clinico oggettivo e misurato di decadimento cognitivo, o la diagnosi piuttosto è mediatica?

Ad accendere i riflettori sul cervello che invecchia è uno studio su ‘Nature Medicine’ del team di ricerca del Progetto nazionale Interceptor coordinato, attraverso il Policlinico Gemelli, da Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Neuroscienze dell’Irccs San Raffaele, con il quale abbiamo parlato nei giorni scorsi proprio di questi temi.

Tra Biden e Mattarella, i ‘bonus’ per una mente agile dopo gli 80 anni

“Sappiamo che il cervello invecchiando perde alcune capacità come il resto degli organi del corpo umano, ma ne conserva moltissime altre” commenta Rossini, “è un dato confermato da tutti gli studi che la stragrande maggioranza dei 70enni ed 80enni di oggi è perfettamente integra sul piano cognitivo”, ricorda Rossini. 

Paolo Maria Rossini
Paolo Maria Rossini

Quello di Joe Biden non è un caso isolato, e i numeri della demenza fanno paura in una società che invecchia. Il fatto è che, a livello scientifico, si dibatte tra coloro che sostengono una diagnosi ‘biologica’ di demenza, rispetto a coloro che sostengono che tale diagnosi debba essere sostanzialmente ‘clinica’, cioè sostenuta da sintomi clinicamente evidenti.

“Pertanto si osservano una serie di distorsioni della realtà scientifica che il mondo delle neuroscienze non può e non deve lasciare passare senza un commento e qualche importante puntualizzazione”, afferma Rossini.

Il declino è inesorabile?

Insomma, complice il ‘caso Joe Biden’ si sta sdoganando la sovrapposizione tra l’idea di ‘vecchiaia’ e un inesorabile ‘declino cognitivo patologico’. Ebbene, Rossini ricorda che una diagnosi di rischio esclusivamente sulla base di uno o più biomarcatori comporta essa stessa il pericolo di fare una previsione sbagliata (il termine tecnico sarebbe falso positivo, cioè qualcuno definito in fase iniziale di malattia che però non svilupperà mai la malattia medesima nel corso della sua vita).

“Pur in presenza di uno o più biomarcatori alterati infatti, una consistente fetta di popolazione a rischio non svilupperà mai la demenza anche nell’arco di anni ed anni di controlli neuropsicologici con test specifici che misurano i vari domini cognitivi (follow-up). Insomma si viene ad attuare una condizione in cui è molto probabile una malattia ‘biologica’, ma in assenza di sintomi”, dice Rossini.

I fattori di resilienza

E allora? Questa situazione si concretizza molto presumibilmente perché in questi soggetti sono abbondantemente presenti fattori di resilienza del cervello sia di tipo genetico, che derivanti da una ricca attività cognitiva e da uno stile di vita che proteggono le strutture nervose non aggredite (es. attività fisica quotidiana ed attività cognitiva, assenza di sovrappeso eccessivo solo per portare degli esempi).

Insomma, sui piatti della bilancia si contrappongono i fattori di rischio da una parte e quelli di resilienza/protezione dall’altra. Se i primi prevalgono, la malattia si esprime clinicamente in tutta la sua devastante progressione, se invece vincono i secondi la malattia non si evidenzierà mai.

“Pertanto, senza voler entrare nei contenuti del dibattito sulla Presidenza americana, crediamo si debba chiarire anzitutto che l’assimilazione tra i disturbi di movimento, tra la dimenticanza dei nomi, e le capacità cognitive è totalmente errata in assenza di esami strumentali e di test neuropsicologici che accertino il contrario”, conclude Rossini.

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