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Il Paese delle culle vuote e la crisi della natalità, l’analisi di Blangiardo

Un esperto di demografia analizza la situazione in Italia, convinto che la strategia per frenare il crollo della natalità debba agire su più leve.

Non siamo ancora allo scenario apocalittico preconizzato nel film ‘I figli degli uomini’, ma l’inverno demografico non sembra dar tregua alla Penisola. E gli ultimi dati Istat non aprono spiragli di ottimismo. “Nel nostro Paese le nascite sono sempre meno: i numeri sono in discesa dal 2008, l’anno passato abbiamo avuto un nuovo record in termini di bassa natalità e i primi tre mesi del 2024, rispetto allo stesso periodo del ’23, sono all’insegna di un ulteriore calo, quasi del 2%”. Parola di Gian Carlo Blangiardo, docente emerito di Demografia all’Università Bicocca di Milano e già presidente Istat, che sintetizza: “Continuiamo ad andare nella direzione di sempre meno nascite”. In un quadro che “non è l’apocalisse”, ma è motivo di “moderata preoccupazione”.
Dal 2008, ultimo anno in cui si è assistito in Italia a un aumento delle nascite, il calo è stato di 197mila unità (-34,2%). Il numero medio di figli per donna nel 2023 è pari a 1,20, molto vicino al minimo storico di 1,19 figli registrato nel lontano 1995 (mentre occorrerebbero 2,1 figli per donna per assicurare la stabilità a una popolazione).

Lo scenario
In parallelo, la popolazione del Belpaese invecchia. “La componente anziana fra qualche anno incorporerà i nati negli anni ’60, quelli del baby boom: i sessantenni di oggi entreranno fra le fila dei diversamente giovani”. Destinati a diventare 18-20 milioni di persone. “Questo è un altro dei temi importanti, anche per i riflessi di natura previdenziale e sanitaria: pensiamo ai molto anziani e agli ultracentenari”, ricorda Blangiardo.
Non solo: la popolazione italiana, che era “sempre cresciuta, salvo una breve parentesi alla fine della Prima Guerra Mondiale, dal 2013 è in diminuzione. Questo vuol dire che abbiamo perso qualcosa come circa 1,5 mln di abitanti. E questo nonostante il contributo dell’immigrazione, che non è più capace di compensare la forte differenza tra nati e morti”. Al 1 gennaio 2024 siamo diventati 58 milioni 990mila, 7mila in meno rispetto alla stessa data dell’anno precedente.

Che Italia sarà
Non è difficile, per l’ex presidente Istat, prevedere quello che accadrà. “Avremo famiglie sempre più piccole”, reti di sostegno familiari meno solide, “con prevedibili conseguenze economiche”. Una popolazione ridotta e più vecchia vuol dire infatti anche una contrazione della forza lavoro, con inevitabili ripercussioni sul Pil. “Solo per l’effetto demografico rischiamo di perdere nell’arco di vent’anni – calcola l’esperto – 300 miliardi di euro rispetto a oggi. Questo vuol dire che mancheranno risorse importanti”.

Questione di strategia
A chi chiama in causa il contributo dell’immigrazione, Blangiardo replica con i numeri: “Se volessimo compensare la caduta della popolazione in età lavorativa solo con l’immigrazione, dovremmo avere 500mila immigrati l’anno in più. Questo vorrebbe dire arrivare ad avere un flusso netto di quasi 700.000 persone ogni anno nel nostro Paese. Benissimo, ma poi bisogna integrare queste persone ed è prevedibile che possa esserci qualche problema. Insomma, l’immigrazione è una leva importante, ma non la soluzione”. Secondo l’esperto, infatti, occorre intervenire in parallelo su “altre leve”. Il rilancio della natalità, sottolinea, “è certamente un obiettivo da perseguire. Non darà frutti immediati, ma se non si comincia, non ci arriveremo mai”, riflette il demografo.

Gli investimenti a sostegno della natalità devono essere fatti, sapendo che i risultati non si vedranno immediatamente. Ma andrebbero inseriti all’interno di una strategia complessiva.
Un altro elemento importante è “il governo dell’immigrazione, che sia governata e non subita. Mancano una serie di figure professionali e, quindi, l’idea di riformare i flussi all’origine e in qualche modo indirizzare” chi arriva “all’interno del sistema produttivo potrebbe essere una soluzione”.

Per Blangiardo è fondamentale anche “la valorizzazione delle risorse dei ‘diversamente giovani’. Questo vuol dire che, se una persona ha una certa età ma per lavoro deve semplicemente ‘far girare la testa’, dovrebbe poter dare il proprio contributo. Certo, non bisogna essere costretti, ma incentivati a farlo in maniera volontaria. Insomma, penso che dobbiamo creare le condizioni perché questa risorsa, parliamo di milioni di persone, se disponibile non vada sprecata, magari anche interagendo con le giovani generazioni”. Insomma, “dobbiamo smetterla di ripetere che c’è una guerra tra chi è giovane e chi non lo è più”. Per il demografo le diverse generazioni possono, anzi dovrebbero, coesistere e interagire.

Torniamo al film di Alfonso Cuarón: il 2027 è dietro l’angolo e se l’idea di un mondo privo di bambini appare ancora lontana, per l’Italia le prospettive non sono certo rosee.
“Non possiamo aspettarci miracoli, ma se gli interventi sono ben studiati, daranno i loro frutti: lo abbiamo visto accadere in Germania, o in Ungheria. E anche i Paesi dell’Est come la Slovacchia e la Repubblica Ceca, che erano veramente messi male, hanno smesso di scendere in termini di natalità”.

Per il demografo non è più solo una questione di incentivi, ma “di atteggiamento culturale, di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, di assicurare alle coppie asili accessibili e funzionali. Insomma, tutti noi ci dobbiamo far carico di questo problema. E, se qualcuno ci chiede un piccolo sacrificio, dobbiamo pensarlo come una forma di investimento”. Un investimento sul futuro.

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