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Grande potere grandi responsabilità, parla la rettrice dell’Università degli Studi di Milano Giovanna Iannantuoni

Il nostro non è un Paese per donne nemmeno all’università. Su un totale di 85 rettori si contano solo 13 rettrici. Un numero ancora troppo esiguo per gridare alla parità di genere, eppure, un passo avanti sembra essere stato fatto grazie alla nomina di Giovanna Iannantuoni come presidente della Crui, la conferenza che rappresenta la categoria. L’economista e già guida dell’Università degli Studi di Milano Bicocca è infatti la prima donna a ricoprire tale ruolo e l’ambiente in cui si è fatta strada lo conosce bene. “L’università è lo specchio del Paese e queste disparità rappresentano quelle che troviamo all’interno del nostro tessuto sociale”, ci spiega Iannantuoni. “Pensiamo a quante donne siedono nei consigli di amministrazione o a quante sono primarie negli ospedali. In realtà, nelle università all’inizio esiste un ottimo bilanciamento tra gli studenti, tranne che per alcune lauree Stem sulle quali però i numeri stanno migliorando, e anche le ricercatrici e i ricercatori partono praticamente in equilibrio numerico. Il problema arriva dopo, quando, a mano a mano che si procede nelle carriere, la proporzione delle donne scende. Ad un certo punto se non riescono ad avere la conciliazione tra il lavoro e la famiglia infatti molte di loro si trovano a dover scegliere. Il mio invito è quello di non rinunciare a nulla, perché si può avere tutto e bisogna avere il coraggio di pretenderlo”.

Quali sono gli obiettivi che si prefigge come presidente della Crui?

Anzitutto, devo dire che sono molto grata ai miei colleghi per la fiducia che mi hanno dato. Ho un grande senso di responsabilità generale perché quello che ricopro è un ruolo molto delicato, soprattutto in questo momento storico in cui si vivono grandi cambiamenti e incertezze sia a livello internazionale che a livello nazionale. Ovviamente sento anche una responsabilità doppia essendo la prima donna a presiedere la conferenza. Il primo obiettivo che mi sono prefissata è quello di mettere al centro del dibattito, anche politico, la scienza, l’istruzione e l’educazione. Dico questo perché noi tradizionalmente siamo un Paese che ha dedicato sempre poche risorse all’università, fatto sta che in qualsiasi classifica europea o dei Paesi Ocse risultiamo sempre ultimi o penultimi rispetto alle risorse pubbliche e private dedicate a questo ambito. Secondo me invece ci si dovrebbe chiedere cosa sarebbe l’Italia senza il suo sistema universitario e, soprattutto, cosa rappresenta l’università per questo Paese. Sinceramente io credo che senza, il nostro sarebbe un tessuto povero di competenze e di idee, di scienza e scoperte e dunque un vero disastro.

Quali sono state le difficoltà che ha incontrato nella sua carriera?

Io sono un’economista teorica e sicuramente anche nel mio campo scientifico ci sono molti più uomini che donne. Quindi, diciamo che sono stata abituata ad essere una minoranza di genere. Detto questo io devo anche ammettere che nel il mio percorso ho sempre puntato alla qualità. Sono pugliese, di Foggia, ho studiato al liceo classico ma poi ho frequentato la Bocconi e sono andata all’estero per tanti anni. Questo mi ha aperto molto gli orizzonti facendomi vedere, più che le difficoltà, la voglia continua di mettere alla prova me stessa. Certamente essere donna non aiuta ma, forse, noi siamo le prime ad aspettarci di più da noi stesse perché riteniamo ancora oggi che non sia scontato riuscire a fare carriera con la stessa linearità dei colleghi maschi. Per fortuna però io non ho avuto grandi problemi di discriminazione. Forse i momenti più delicati che ho vissuto sono avvenuti quando mi sono candidata come prima Rettrice dell’ateneo all’Università di Milano Bicocca, lì ho subito diversi commenti sessisti. Non ci dovrebbero essere ma esistono ancora purtroppo. Per superarli credo si abbia bisogno di un vero cambiamento culturale, di creare le condizioni per cui le donne abbiano il coraggio di alzare la mano e dire “io posso fare questo”. In Italia la forza lavoro femminile è tra le più basse tra i Paesi Ocse. Qui lavora una donna su due e ciò vuol dire che a livello di Pil perdiamo ricchezza, idee e spinta. Per cercare il cambiamento l’educazione svolge un ruolo fondamentale. Fin da piccoli, bambini e bambine devono essere educati ad ascoltare le idee degli altri.

Quali sono gli aspetti positivi delle nostre università e quali quelli da migliorare?

Un aspetto molto positivo è che la nostra università sta cambiando più velocemente di quanto il Paese si accorga. Il mondo si evolve rapidamente. Pensiamo all’intelligenza artificiale o al tema della sostenibilità. In maniera molto chiara noi sappiamo che tra vent’anni i lavori che saranno a disposizione dei nostri neolaureati ad oggi neanche esistono. Quindi, secondo me, quello che stiamo capendo anche prima di altre realtà è che ciò che importa non è più studiare le singole materie ma creare la contaminazione tra di esse e dare ai nostri ragazzi un kit di strumenti che li renda indipendenti, pronti ai cambiamenti sul mercato del lavoro. Quello di cui ci dobbiamo liberare invece è la burocrazia e le lentezze procedurali, una vera zavorra. Ma ci stiamo lavorando anche con il ministero dell’Università.

Vediamo molte manifestazioni all’interno degli atenei in questo momento. Cosa rappresentano secondo lei?

Io credo che quando i ragazzi ci pungolano su argomenti come la pace chiedendo un cambiamento importante noi dovremmo ascoltarli. È chiaro che le semplificazioni non vanno mai bene e la polarizzazione degli argomenti spesso è figlia di una mancanza di studio su quali siano la storia e le ragioni che hanno portato a dove siamo. Come è chiaro che dopo il terribile attacco terroristico del 7 ottobre, e che tutti abbiamo condannato, ci sia stata sicuramente una risposta molto forte. La popolazione civile di Gaza sta soffrendo troppo. Tutti chiediamo la pace, ma non la si può chiedere facendo la guerra. E non la si può chiedere neanche boicottando qualcuno. Gli atenei israeliani non fanno politica estera. Una cosa secondo me molto l’importante è proprio che le università italiane rimangano un luogo di neutralità di pensiero dove ognuno è libero di esprimere il proprio punto di vista. Tutti dovrebbero abbassare i toni e rispettare la libertà di scambio di idee. E detto questo, ricordarsi di ascoltare anche i nostri ragazzi.

 

 

 

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