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Trump vs Biden: storia di un’elezione storica (e di una rivoluzione già iniziata)

Tremilaquattrocento mld di dollari, o 3,4 trilioni, detto all’americana: per le aziende Usa ed europee è arrivata l’epoca della re-industrializzazione, e secondo le proiezioni questa è la cifra impressionante che metteranno sul piatto riportando i mercati nazionali a coprire metà della capacità produttiva e facendo scendere l’offshore al 17% della loro produzione, rispetto al 35% del 2021.

Gli investimenti sono già partiti, secondo quanto analizzato dal Capgemini Research Institute: il 47% delle grandi organizzazioni europee e statunitensi ha già investito nel reshoring. In un contesto economico già deciso in cui si muoveranno cifre gigantesche, quanto peserà la politica? Quanto inciderà l’elezione di Joe Biden o Donald Trump alla Casa Bianca?

Secondo Alexander Alden, senior fellow dell’Atlantic Council, nessuno dei due allontanerà Washington dalle posizioni protezionistiche attuali. “C’è un’ampia continuità su molti temi tra l’amministrazione Trump e Biden. Il secondo ha continuato le politiche trumpiane, forse anche in maniera più intensa, come con l’Inflation Reduction Act che ha attirato tanti investimenti negli Stati Uniti”. Mentre gli Usa guardano al futuro della loro industria, dice Alden, “l’Europa è ancora concentrata sulle regole e non ha una visione di politica industriale paragonabile, mentre attriti rimangono sulla regolamentazione Europea delle tech Usa e la bilancia del commercio tra le due sponde dell’Atlantico”.

Per capire come il processo di reindustrializzazione sia anche una sfida tra Washington e Bruxelles, basta seguire i numeri delle gigafactory. Secondo il sondaggio Capgemini gli Stati Uniti sono la location preferita dai progetti di costruzione di gigafactory con un 52% (nonostante i dirigenti americani intervistati da Capgemini siano il 48% del campione), seguiti dall’Europa continentale, lontana, al 38% delle preferenze dei dirigenti (più il 16% del Regno Unito). Secondo il report l’Inflation Reduction Act ha capitalizzato un trend già avviato in America, con le decine di miliardi promesse dai produttori auto negli anni precedenti.

Per ora i numeri dicono che la sostenibilità, spinta dai piani di incentivi americani ma anche europei (che molte aziende non ritengono sufficienti), è un tratto comune dei piani delle società. La percentuale di chi si sta muovendo raggiunge il 72% se si parla di sviluppo di una strategia di reindustrializzazione avviata nella maggior parte dei casi negli ultimi due anni. Un grande peso lo ha avuto la spinta di Biden sulla sostenibilità, con la maggioranza dei leader aziendali intervistati da Capgemini che ritiene che la reindustrializzazione aiuterà le aziende a raggiungere gli obiettivi climatici.

Alden spiega che difesa, commercio e tecnologia pongono degli ‘irritants’ nelle relazioni Euro-Americane, come si dice in linguaggio diplomatico. “Nel summit della Nato in Galles del 2014 la promessa era che sarebbe stato preso sul serio l’articolo 3 del trattato Nato secondo cui ogni Paese si deve impegnare per la propria difesa”, con la famosa quota di 2% del Pil dedicato, quota ancora non raggiunta da venti dei trentuno paesi interessati (Italia compresa). Donald Trump negli scorsi mesi ha minacciato di non “proteggere” i Paesi che non hanno ancora mantenuto le promesse.

Un aspetto industriale strategico, quello della difesa, sul quale il continente europeo è rimasto indietro, per Alden. Per paragonare l’approccio nostrano a quello americano l’esperto fa l’esempio dei campioni italiani come Leonardo o Fincantieri. “Questo è un tema molto sottovalutato, ma parte della loro fortuna deriva dalla loro presenza nel mercato difesa Usa. Pensiamo a Fincantieri, che ha la sua importante produzione di vascelli in Wisconsin”. La convinzione degli americani è che se le società della difesa europee hanno libero accesso al mercato Usa, dovrebbe avvenire anche il contrario.

Ultimo pezzo del puzzle è la tecnologia, con la politica europea fortemente orientata a “guardare con eccessivo sospetto le tech americane” e ostacolare l’entrata nel mercato europeo, con le preoccupazioni sul tema privacy. “Paradossale, visto che questo scetticismo non sembra essere sempre stato applicato in ugual misura a società cinesi”, sottolinea l’esperto. L’obiettivo del protezionismo all’europea degli ultimi anni era favorire la nascita di player tech importanti: secondo Alden il risultato è “che queste società non sono mai nate, perché manca lo sviluppo del venture capital e perché c’è un’eccessiva burocrazia che rende difficile la compliance” e il paradosso è che chi ha più facilità ad aderire alle norme sono le società più grandi e strutturate, come quelle americane, che “quando arrivano in Europa non sono sicuramente più startup. I costi della compliance passano al cliente Europeo”, dice Alden.

La fase attuale di protezionismo e reindustrializzazione statunitense (ed occidentale) secondo Alden risale al 2016, con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. “Fino ad Obama eravamo ancora nel paradigma del commercio libero e della de-industrializzazione già iniziati negli anni 80. Quando ci si è accorti che la teoria che chi lavorava in fabbrica potesse diventare programmatore non si è avverata c’è stata la reazione di quella che una volta era la classe lavoratrice, e poi una classe sempre più precaria. Dopo il 2016 non solo è diventata esistenziale la questione industriale per motivi economico-politici, ma si è risvegliata la competizione con la Cina, un cavallo di battaglia di Trump. La vulnerabilità rispetto a Pechino, in questi anni, è naturalmente diventata anche una questione geopolitica”, con Taiwan al centro delle tensioni tra le due potenze.

Dalla crisi finanziaria del 2008, spiega Alden, a decidere le elezioni americane è stato anche il voto di malcontento, profondamente connesso con la questione industriale che coinvolge alcuni stati chiave per il voto Usa, come quelli del Midwest. “Il voto di malcontento ha fatto un paio di shift in venti anni” ed è “dovuto a una serie di fallimenti attribuiti dall’elettorato all’establishment a cui si era affidato”.

Alden riassume che il primo fallimento è stato in politica estera, con la guerra in Iraq, il tema che portò alla vittoria dei democratici alle midterm del 2006 e poi di Barack Obama nel 2008. Dopo è stato il turno del collasso finanziario del 2008-2009, la nascita di Occupy Wall Street a sinistra in quegli anni e successivamente l’arrivo del Tea Party da destra.

In entrambi i casi si è assistito allo stesso fenomeno: le argomentazioni dei movimenti, partite da un tema economico, sono sfociate in temi sociali. È stato “Trump, nel 2016, a riportare il focus sull’economia, con una formula – la critica all’establishment – non dissimile da quella usata da Obama. In molti hanno votato per Obama, poi per Trump, poi per Biden: anche oggi il voto di malcontento sta cercando una risposta che non ha ancora trovato”. Tra questioni sociali ed economiche – senza dimenticare i guai giudiziari di Donald – il rischio è che tutto si riduca all’età dei due candidati, o meglio alla percezione che ne ha l’elettorato? Secondo Alden “Trump, sempre molto energetico, non è percepito come un 70enne, mentre Biden è sempre più visto come non fisicamente e mentalmente pronto”, un aspetto che dalla campagna presidenziale repubblicana non mancano di sottolineare in continuazione. Ma non lasciatevi ingannare, il tema economico c’è ancora: Alden ricorda come da ultimo Trump abbia “menzionato la sostituzione dell’income tax federale con i dazi, come si è fatto fino all’inizio del ventesimo secolo: questo porterebbe a prezzi molto più alti per i consumatori americani, come una sorta di Iva, ma creerebbe anche forti incentivi per investimenti e produzione negli Usa e una corrispondente crescita di lavoro a costo più alto”.

Probabilmente parliamo “più di una provocazione che di una vera proposta, ma ricorda che gli Usa – il paese Ocse che ha il Pil meno dipendente dal commercio estero – potrebbero fare considerazioni impossibili per altri”. Quello che servirebbe, conclude l’esperto, è evitare protezionismi da entrambe le sponde dell’Oceano: “La speranza è che si possa arrivare a un accordo transatlantico su come fare, finalmente, una politica industriale comune”.

 

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