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I segreti del giornalismo economico, parla Federico Fubini

Federico Fubini svela i segreti del giornalismo economico e analizza i cambiamenti che hanno investito la professione con l’avvento del digitale.

Il “giornalismo mi piace perché ti consente di ficcare il naso in giro e soddisfare le tue curiosità”. Autorevole firma del Corriere della Sera, di cui è anche vicedirettore, Federico Fubini enumera gli ingredienti imprescindibili per un giornalismo economico di qualità: capacità di lettura dei dati, ma anche studio e approfondimento continui, senza i quali si rischia di produrre analisi superficiali. Solo così si può dare vita a un racconto che sia complesso e originale. E che non tema la concorrenza dall’intelligenza artificiale.

Quando ha deciso di fare il giornalista?

Durante gli anni dell’università, grazie alla dritta di un amico, ho incominciato a scrivere per Paese Sera. Ben presto ho capito che di quel mestiere mi piacevano molte cose, fra cui la possibilità di scrivere e di ficcare il naso in giro per soddisfare le proprie curiosità. Dopo la laurea ho fatto il freelance per qualche anno, poi è arrivata la crisi finanziaria del ’92 e il lavoro ha incominciato a scarseggiare.

A quel punto che cosa ha fatto?

Ho frequentato un master di giornalismo in Francia sugli affari europei. Era appena stato firmato il Trattato di Maastricht e quelli sull’economia europea erano temi caldi. Durante il master ho scoperto che, malgrado i miei studi in Lettere classiche, l’economia la capivo e mi piaceva raccontarla. Così ho lavorato come freelance a Bruxelles fino al 2000, in anni decisivi per il processo di integrazione europea.

Quindi l’approdo al Corriere della Sera.

Al Corriere cercavano un profilo specializzato in economia dell’Ue e scelsero me. Con la crisi finanziaria del 2007, la mia posizione all’interno del giornale è cresciuta: grazie al mio background disponevo degli strumenti per comprenderla e raccontarla. Poi sono passato a Repubblica nel 2013, in veste di editorialista e inviato. Nel 2015 sono tornato al Corriere, di cui ora sono anche vicedirettore.

Qual è il segreto per fare un giornalismo economico di alto livello?
Bisogna saper maneggiare i dati. Ma i numeri da soli non bastano, bisogna saperli interrogare, incrociare, leggerli in prospettiva. Lavorare sui dati non vuol dire solo prendere dei numeri e spiattellarli nel pezzo. E poi bisogna studiare, acquisire un bagaglio importante di conoscenze, senza il quale non sarai mai in grado di mettere i fatti in prospettiva e la tua analisi risulterà sempre superficiale. Col tempo ho capito che i lettori non si fanno ingannare facilmente. Ne sanno tanto, riconoscono subito gli errori e te li fanno notare.

Quale quadro delineano i risultati delle recenti elezioni europee?
La crescita delle destre in vari Paesi renderà più complicata la realizzazione di alcune priorità dell’Unione europea, come gli investimenti comuni sui grandi progetti tecnologici, senza i quali l’Europa rischia di restare indietro rispetto a Cina e Stati Uniti. L’ascesa dei nazionalismi rende la cooperazione più complicata, a meno che i nazionalisti non rinuncino a quello in cui hanno sempre creduto. Il Patto di stabilità rappresenta l’altro grande punto interrogativo: se la Francia dovesse decidere di rompere le righe, l’Italia potrebbe mettersi in scia e unirsi a un tentativo francese di ridiscuterne i termini.

Qual è la più grande trasformazione che ha attraversato il giornalismo negli ultimi anni?
Secondo me la più grande trasformazione ha a che fare col rapporto fra giornalista e lettori. Oggi questo rapporto è molto meno top-down di un tempo. Il lettore non si beve tutto quello che gli dai, non tollera la superficialità e ha meno complessi di inferiorità nei confronti del giornalista rispetto al passato. Non possiamo prendere in giro chi ci legge, propinandogli merce assemblata in fretta o poco lavorata. Con Internet il numero di fonti a cui attingere è cresciuto sensibilmente, per cui il lettore ci mette poco a metterti in discussione. Dietro ogni pezzo che scrivo c’è molta cura, approfondimento, ricerca dell’originalità.

Con l’avvento poderoso dell’intelligenza artificiale stanno fioccando le previsioni più catastrofiche sulla scomparsa dei posti di lavoro. Qual è la sua visione per il giornalismo?
Io penso che l’intelligenza artificiale potrà aiutare i media a raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Non mi fa paura: storicamente le nuove tecnologie, nel medio periodo, creano più posti di lavoro di quanti ne distruggano. L’aggiustamento però è sempre complesso, non sarà un pranzo di gala. L’AI ti restituisce una fotografia dell’esistente, ma difficilmente produrrà contenuti originali dal punto di vista giornalistico. Quello continuerà a spettare a noi.

Nel corso degli anni è stato anche autore di libri.
Dal 2009 a oggi ho pubblicato otto libri. Scrivere un libro implica uno studio notevole: è un grande aggiornamento professionale. E l’esercizio di scrittura migliora la qualità dei tuoi articoli. Scrivere dei libri inoltre ti rende più riconoscibile ai lettori, consentendo di stabilire un dialogo con loro. Da un paio di anni a questa parte, inoltre, sono autore di ‘Whatever it takes’, una newsletter di economia. Un altro modo per dialogare con i lettori; certe settimane arrivano talmente tante mail che non riesco a rispondere a tutti.

Il suo ultimo libro, ‘L’oro e la patria’ (Mondadori), è la storia di un eroe dimenticato.
È la storia di Niccolò Introna, un alto funzionario antifascista che ha attraversato gli anni del regime di Mussolini e quelli della fondazione della democrazia italiana. Si è ritrovato in varie controversie e ha agito sempre in difesa dell’interesse pubblico. A me ciò che interessava era portare avanti uno studio sul costume del potere in Italia. Per quanto i regimi siano cambiati, ci sono degli elementi di continuità nell’esercizio del potere: il rapporto fra competenze, fedeltà e clientelismo. Sono tratti che contraddistinguono il nostro carattere nazionale. E sono ancora molto attuali.

 

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