A 34 anni Beatrice Venezi è un direttore d’orchestra di fama internazionale. In tutto il mondo direbbero: che brava. Da noi l’hanno ribattezzata: ‘Dio, patria e bacchetta’. “Sono ampiamente abituata, anzi vaccinata alle critiche – risponde secca Venezi – I criticoni hanno iniziato sostenendo che i miei capelli fossero troppo lunghi, poi gli abiti troppo appariscenti, io stessa troppo femminile”.
Il ruolo di vittima però non le si addice: lei non le manda a dire, e in un mondo molto maschile è riuscita ad emergere.
Mi hanno sempre fatto sentire come quella nel posto sbagliato. Nell’ambiente accademico io non ‘fittavo’, mi lasci passare l’inglesismo. Il motivo è semplice: ho sempre pensato alla musica classica come a un’arte accessibile a tutti, non solo a pochi privilegiati. È per questo che mi impegno nella divulgazione, cerco di trasmettere un’immagine pop, anche grazie all’uso dei social network. Mi piace condividere le immagini dei miei concerti in giro per il mondo, all’estero i concerti di lirica sono frequentati da platee più popolari che in Italia. La mia attitudine evidentemente non è condivisa da quanti si riempiono la bocca della parola ‘cultura’, purché somigli a una enclave per pochi eletti. È una questione di potere: se resta accessibile a pochi, loro possono più agevolmente conservare il proprio potere. Io invece punto alla fruizione democratica della musica classica.
Da come parla, sembra che le critiche la colpiscano più di quanto appare.
Mi procurano indifferenza, glielo assicuro. So di essere un personaggio che dà fastidio. Ora hanno tirato fuori pure questa storia del fascismo, una cosa talmente ridicola accostata a me, anche solo per un fatto generazionale: sono nata nel 1990. Non ho mai proferito mezza parola che possa lasciar trapelare una mia qualche simpatia per una dittatura. Credo che sia ormai venuto il tempo di fare pace con la nostra storia e guardare avanti.
Lei non è figlia d’arte.
Ecco, non mi perdonano di non venire da una famiglia di musicisti. Il pedigree e l’albero genealogico non definiscono certo il talento di una persona. Eppure nella musica classica resiste l’idea che sia un’arte da tramandare di padre in figlio. Anzi, se la trasmissione non avviene per via familiare, deve svolgersi nei ‘salotti’ che io non frequento. Non appartenendo né all’una né all’altra categoria, vengo tacciata di essere una ‘outsider’.
Lei oggi non è esattamente una ‘outsider’: ricopre incarichi prestigiosi, dirige un concerto in Senato, è pure consigliere del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano.
Per il ministro sono consigliere tecnico. Non ho alcun incarico politico ma sono diventata un mezzo per attaccare la politica del governo. Di recente, è uscito un libello firmato da un critico musicale, tale Alberto Mattioli, il titolo è ‘Destra maldestra’. L’autore ha pensato bene di dedicarmi ampi spazi per dire, in sostanza, che la mia carriera sarebbe insignificante, ammettendo candidamente di non aver mai assistito a un mio concerto. In altre parole, si critica un’artista senza averla mai vista. Per paradosso, il libro è uscito negli stessi giorni in cui mi trovavo a dirigere la Turandot di Puccini al Colón di Buenos Aires, uno dei teatri più importanti del mondo. In televisione, invece, un giornalista ha avuto l’ardire di affermare che io non avrei titoli di studio, peccato che mi sia diplomata, con lode, in pianoforte e direzione d’orchestra. Ma evidentemente questo signore parla senza sapere. Il livello, insomma, è bassissimo: subisco attacchi strumentali e misogini.
Chiedendo di essere chiamata ‘maestro’ o ‘direttore’, non teme di fare un torto alle donne affezionatissime alle desinenze?
Viviamo nell’era in cui ognuno dovrebbe essere libero di essere chi vuole. Perché allora non dovrebbe esserci la libertà di essere chiamati come si vuole? Per i ruoli e le professioni, io sono a favore della definizione di neutri perché li considero dei contenitori, indipendentemente dall’identità sessuale di chi ricopre il ruolo. Vieni giudicato per ciò che sai fare, non è una questione di genere. Credo perciò che sia controproducente appellare un professionista con una differenza della lingua. Le tematiche femminili, che esistono e sono assai concrete, non si risolvono con la contrapposizione tra uomini e donne.
Ammetto che anch’io preferisco ‘direttore’, la declinazione al femminile mi fa pensare alle direttrici scolastiche… per non parlare di ‘sindaca’ o ‘ministra’, parole cacofoniche di una lingua bellissima. Il femminismo, oggi, come se la passa?
Non bene. Quante si indignano sulle desinenze applicano spesso un doppio standard, due pesi e due misure, io le chiamo le femministe cococo, con il contratto a chiamata. Femministe che, peraltro, non hanno mai ritenuto di dover spendere una parola in mia difesa di fronte ad attacchi volgari e sessisti. Non è un femminismo solidale: se non sei di quel colore politico, smetti di essere una donna. Io credo che il femminismo sia ben altra cosa: oggi la prima battaglia dovrebbe riguardare la parità salariale perché, se tu donna vieni pagata meno di un uomo per le stesse mansioni, vuol dire che il tuo lavoro vale meno. Facciano pure le battaglie sulle desinenze, io preferisco occuparmi di cose serie.
Lei è nata a Lucca, la città di Giacomo Puccini di cui, quest’anno, ricorre il centenario della morte e al quale ha dedicato un libro, ‘Puccini contro tutti’ (edito da Utet).
Mi sento molto pucciniana, ho respirato la musica di Puccini fin da bambina e le sue opere mi hanno portato fortuna nei debutti più importanti. Nel libro esploro la personalità di Puccini a 360 gradi: come uomo, artista, mecenate d’arte, amante della modernità e dell’innovazione. Lei pensi che nella sua casa di Viareggio fece installare un impianto di irrigazione incredibilmente all’avanguardia per l’epoca. Era un amante delle auto veloci, della bella vita, un testimonial ante litteram dei cappelli Borsalino, della penna Parker e di molti altri marchi. È stato un personaggio capace di coltivare il culto della propria immagine.
Giorgia Meloni, prima donna presidente del Consiglio nella storia repubblicana, ha segnato una svolta culturale di dimensioni epocali. Che cosa manca all’Italia perché la vittoria di una donna sia la vittoria di tutte le donne?
Penso che tutti dovremmo essere fieri che una donna sia arrivata a Palazzo Chigi, indipendentemente dal colore politico. Eppure un evento di portata storica è divenuto l’occasione per dividerci. Ciononostante, io credo che la solidarietà femminile esista, ne ho avuto esperienza nella mia vita, le donne sanno anche aiutarsi e sostenersi nei momenti difficili.
Lei non rinuncia a esibire la sua femminilità anche con la bacchetta in mano. Il fascino femminile porta più vantaggi o svantaggi?
In un contesto antiquato come l’Italia, il fascino femminile porta svantaggi. Prevale l’idea che, se curi l’aspetto esteriore, trascuri quello interiore, perciò sarai presa tanto più sul serio quanto più apparirai trasandata e sciatta. Io, a questo modo di ragionare, non mi sono mai piegata: ritengo di potermi affermare con la mia professionalità senza rinunciare a sentirmi bella davanti allo specchio. Poi, chiaramente, parliamo di stereotipi, esistono anche persone prive di preconcetti e anzi affascinate da un’immagine nuova grazie alla quale, forse, la musica classica può apparire meno distante.
Fortune Italia è un business magazine che parla di innovazione, impresa, lavoro. In che modo la musica classica produce Pil?
Quando si parla di musica classica e teatri, abbiamo il dovere di preservare il nostro Dna e le nostre radici. Noi italiani abbiamo inventato l’opera lirica, siamo tra i più grandi compositori della storia, perciò dovremmo avere maggiore consapevolezza della nostra identità culturale. Le ricadute economiche del settore sono legate soprattutto al turismo. Ai puristi può apparire blasfemo accostare la musica classica alla parola ‘intrattenimento’, eppure l’opera rappresenta una forma sublime di intrattenimento in grado di provocare una catarsi nell’ascoltatore. Ridurre la musica classica a una distrazione elitaria, per pochi, fa sì che il circuito che ruota attorno ad essa non sia economicamente sostenibile.
Un esempio?
Lei pensi a quello che è accaduto negli scorsi anni al Maggio musicale fiorentino: a dispetto di un afflusso turistico enorme nel capoluogo toscano, il teatro, tristemente noto per l’enorme debito accumulato, vendeva solo una percentuale ridicola di biglietti ai turisti. Tutto ciò denota incapacità manageriale: è vero che l’arte non può svilupparsi solo in funzione del profitto ma il sistema, entro certi limiti, deve riuscire ad autosostenersi. Il contributo pubblico deve esserci ma non può essere decisivo per stare in piedi. Anzi, esso dovrebbe premiare chi sa creare valore. Sarebbe straordinario se riuscissimo a creare un turismo legato al nostro know-how musicale, esattamente come abbiamo fatto con le bellezze paesaggistiche e architettoniche del nostro Paese.
Lei vive tra l’Italia e l’Argentina, il Paese del suo compagno. Quali sono le affinità con l’Italia?
A Buenos Aires c’è un amore smisurato per la cultura italiana e per l’italianità. C’è anche un diffuso risentimento a causa dei fallimenti della politica ma tra la gente non si respira il clima di odio che imperversa in Europa. Tra le persone ci sono vincoli di solidarietà forti, un po’ come nell’Italia degli anni Cinquanta: ci si aiuta, si guarda l’altro negli occhi. Una differenza notevole riguarda la fruizione della cultura: nella sola Buenos Aires si contano trecento teatri. Anche nei giorni feriali, vedi le code agli ingressi delle sale musicali, in ogni isolato esiste una libreria, il secondo giornale del Paese vende ancora dieci milioni di copie. È un’abitudine che noi abbiamo, in parte, perduto: la frequentazione quotidiana con la cultura.