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I pericoli nell’acqua (del rubinetto)

acqua

L’acqua è vita, certo: ma oggi ne siamo ancora sicuri? Basta uno sguardo agli ultimi rilevamenti per scoprire che le vene sotterranee e di falda cui attinge la rete idrica italiana sono contaminate dai Pfas, acronimo dell’inglese PerFluorinated Alkylated Substances: una famiglia di circa 12mila composti di sintesi che dall’acqua si propagano nel suolo, nell’aria e negli organismi vegetali e animali, innescando mutazioni cellulari che sono fra le concause di svariate patologie. In primis quelle oncologiche.

Indagini recenti hanno riscontrato livelli di Pfas sopra la norma nelle acque di 16 regioni italiane, con situazioni da monitorare con attenzione soprattutto in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Toscana: i dati restituiscono la fotografia di un territorio in cui l’inquinamento da Pfas riguarda anche zone non fortemente industrializzate, con concentrazioni di inquinanti a volte addirittura superiori ai 500 nanogrammi per litro, e dunque ben oltre il limite dei 100 ng/l previsto dalla Direttiva UE n. 2184/2020. In Europa le categorie più pericolose dei Pfas (Pfos e Pfoa, rispettivamente l’acido perfluorottanosulfonato e l’acido perfluorottanoico) sono state vietate dalle Convenzioni di Stoccolma nel 2009 e nel 2019, e da ultimo l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) ha formulato una proposta per bandire definitivamente la produzione e l’uso di tutti i Pfas all’interno dell’Unione.

È una sfida ambiziosa, che tuttavia non considera due problemi: occorre trovare delle alternative ai Pfas per l’impiego che se ne fa a livello industriale, e bisogna smaltire quelli già accumulati nell’ambiente, operazione che peraltro potrebbe essere effettuata in maniera naturale grazie alle tecniche di biorisanamento, che sfruttano l’azioni di alcuni microorganismi capaci di degradare i Pfas grazie ai loro enzimi.

“I Pfas sono polimeri in cui una catena di carbonio totalmente o parzialmente fluorata risulta collegata a diversi gruppi funzionali”, spiega Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e docente di Prevenzione Ambientale all’Università degli Studi di Milano. “Sono noti anche come forever chemicals (inquinanti ‘eterni’ o
permanenti, ndr), a causa dei tempi lunghissimi necessari per degradarsi. Stiamo parlando di sostanze che, a partire dal Secondo Dopoguerra, hanno invaso la società dei consumi in maniera sempre più massiccia per le loro specifiche proprietà idrorepellenti e oleorepellenti, e ormai si trovano un po’dappertutto: dalle padelle antiaderenti in teflon ai contenitori per alimenti e bevande, dalle tinture per l’industria conciaria e cosmetica alle schiume antincendio, dalla moquette alle vernici, dai cosmetici fino ai presidi sanitari, incluse le lenti a contatto, e si riversano in grandi quantità nelle riserve idriche”.

La scienza ha confermato che la contaminazione da Pfas dell’acqua potabile può essere correlata a esiti avversi sui meccanismi di riproduzione e di crescita, e in particolare alla genesi di alcuni tumori: “Negli ultimi anni, diverse ricerche condotte su campioni di popolazione esposta ad acqua contaminata da Pfas hanno per esempio certificato un aumento dei livelli di colesterolo e mutamenti nella secrezione di enzimi epatici e di ormoni tiroidei”, prosegue Miani.

“Di recente, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc) ha in evidenziato una correlazione fra Pfas e maggiore incidenza di neoplasie al rene e ai testicoli, mentre sono più deboli le prove per il cancro alla prostata. I meccanismi biologici attraverso i quali i Pfas potrebbero essere collegati allo sviluppo di tumori umani riguardano “l’alterazione del metabolismo cellulare, dei livelli ormonali e della funzione immunitaria, e i danni al Dna”.

Come è possibile capire se l’acqua che sgorga dai rubinetti contiene Pfas? “L’acqua contaminata da sostanze alchiliche perfluorate e polifluorate non ne rivela la presenza poiché questi composti chimici purtroppo non lasciano tracce evidenti e il liquido rimane trasparente e inodore”, avverte Alessandro Miani. Se ci sono sospetti, per accertare l’effettiva concentrazione di Pfas è indispensabile rivolgersi a un laboratorio di analisi portando un campione di acqua, oppure si possono richiedere informazioni al proprio Comune di residenza o alla società che gestisce la rete idrica.

A titolo preventivo, una buona soluzione per trattenere e rimuovere i Pfas dall’acqua domestica e renderla più sicura da bere o da usare per cucinare, consiste nell’adottare un filtro a carboni attivi, che si può montare direttamente sul rubinetto o più a monte, sulla tubatura che porta l’acqua al lavandino, o un impianto a osmosi inversa: “I carboni attivi sono composti da un materiale poroso d’origine vegetale in grado di legare i Pfas presenti nell’acqua catturandoli e raccogliendoli nell’apposito filtro, che deve essere cambiato a cadenza regolare, in genere ogni 6-12 mesi”, chiarisce il presidente Sima. “Nell’osmosi inversa, invece, la funzione di filtraggio viene garantita da una speciale membrana semipermeabile – da sostituire ogni 4-5 anni – che seleziona e blocca i contaminanti e purifica l’acqua”. In ogni caso, per limitare la dispersione in acqua dei PFAS e scongiurarne l’ingestione, “bisognerebbe cercare di evitare o almeno di ridurre l’impiego e il contatto con prodotti che, fra gli ingredienti specificati in etichetta, includano le parole come “fluoro” o “perfluoro””, chiarisce ancora Miani.

Attenzione allora “agli imballaggi alimentari dotati di rivestimenti repellenti al grasso o ai liquidi, come sacchetti, vaschette e altre confezioni destinate allo smercio o alla conservazione, e ovviamente ai cibi in essi contenuti; ma attenzione anche alle pentole antiaderenti, in particolare quelle che mostrano segni di usura della pellicola e non vanno assolutamente utilizzate. Al fondo in teflon, se possibile andrebbe preferito quello in ceramica, oppure si può optare per la cottura nel ferro, nella terracotta vetrificata e nella pietra ollare”.

E poiché negli scarichi dei lavandini finisce pure l’acqua che si usa per l’igiene personale, è consigliabile dare un’occhiata anche alle formulazioni di cosmetici e detergenti; le molecole ‘perenni’ perfluoroalchiliche, infatti, sono largamente presenti in rossetti, mascara, fondotinta, shampoo e spume per capelli e creme solari water-proof a lunga tenuta, ed è meglio essere cauti anche il cosiddetto PTFE (politetrafluoroetilene), un altro composto ad azione volumizzante a uso cosmetico derivato dai Pfas che, una volta disperso in acqua, diventa difficile da neutralizzare e migra nell’ambiente. Infine, visto che non si può escludere che una certa percentuale di Pfas si depositi comunque nell’organismo, sarebbe buona norma abituarsi a bere almeno 1,5-2 litri di acqua sicura al giorno e assumere regolarmente frutta e verdura di stagione ricca di liquidi: così facendo, “si aiuta il corpo a velocizzare i fisiologici processi di detossinazione e a espellere i composti perfluorati eventualmente già presenti nei tessuti”, conclude l’esperto.

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