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Di Francesco (Kedrion): “Ora vogliamo crescere facendo squadra”

Ugo Di Francesco Kedrion

Sul campo di pallavolo si può toccare la palla una volta sola, poi occorre darla a un compagno. Parte da un concetto di squadra “spinto alla massima potenza” Ugo di Francesco, manager dalla lunga carriera nel pharma, per raccontare a Fortune Italia la nuova Kedrion. L’azienda, nata dalla fusione con la britannica BPL (Bio Products Laboratory), è ormai un player globale nel settore dei plasmaderivati e dei farmaci per malattie rare, con più di 5.000 dipendenti in tutto il mondo. Un’impresa che, proprio come una squadra, “vuole vincere”. E che, per restare alla metafora sportiva, punta a farlo nel nostro Paese.

Di Francesco, un passato (mai dimenticato) da allenatore di pallavolo, ci spiega che anche nella farmaceutica vuole “vincere, rispettando le regole”. Certo, in campo e nel business “a volte può capitare di perdere contro una squadra più forte. Ecco perché è importante avere la coscienza tranquilla e sapere di aver fatto tutto il possibile per poter vincere. Nel rispetto degli obiettivi e dei valori comuni”. Così forse può stupire leggere che il manager, da bambino, sognava di usare il bisturi. Ma oggi il suo approccio al fare impresa è acuto e puntuale come quello di un chirurgo.

Come è cambiata Kedrion dopo l’acquisizione da parte di Permira e che ruolo ha l’Italia oggi per la sua azienda?

Con l’ingresso di Permira, Kedrion non è solo cambiata: direi che ha avuto una vera e propria trasformazione. Nel senso che la combinazione di Kedrion e di BPL ha permesso di creare un’azienda globale, operativa su scala mondiale e di dimensioni sufficienti per poter giocare un ruolo da player importante del settore.

Oggi noi siamo la quinta azienda al mondo nel settore dei plasmaderivati. E questa combinazione ci ha permesso di sfruttare delle sinergie, di combinare i punti di forza. BPL aveva una presenza un po’ più importante negli Stati Uniti: la combinazione di due aziende che operavano nello stesso settore ha consentito di raggiungere delle sinergie di efficienza impensabili per una singola azienda con un’economia di scala minore. Un fondo come Permira, uno dei più importanti al mondo, ha portato una solidità finanziaria e una logica di lungo termine. Siamo riusciti inoltre a focalizzarci nello sviluppo di nuovi prodotti, quindi lavorare sull’innovazione. E devo dire questo ci ha permesso anche di accelerare il focus su due dimensioni: quella delle malattie rare e quello ‘storico’ dei plasmaderivati. Ora ci stiamo concentrando sulle malattie ultra rare e sulle nuove tecnologie.

Kedrion oggi ha più di 5.000 dipendenti in tutto il mondo, oltre a un portfolio di 37 prodotti distribuiti in oltre 100 Paesi. Che ruolo ha l’Italia?

Oggi parliamo di un’azienda globale, ma la nuova Kedrion rimane un’azienda italiana: il nostro Dna è italiano e nel nostro Paese siamo il primo partner del Sistema sanitario nazionale nelle forniture di plasmaderivati. Il nostro obiettivo è anche quello di rinforzare la nostra presenza industriale in Italia e, quindi, di investire sul territorio italiano. Inoltre, nonostante un leadership globale, le decisioni strategiche vengono prese in Italia.

Quanti dipendenti avete nel nostro Paese?

Oltre 1.100 dipendenti, di cui diciamo oltre il 50% è concentrato in Toscana. Poi abbiamo una seconda presenza importante vicino Napoli e, infine, un ufficio a Milano.

In questa fase state cercando dei talenti particolari per crescere nel nostro Paese?

Le rispondo con un un secco e convinto sì. Una prima premessa che non dobbiamo mai dimenticare è che siamo un’azienda che il cui obiettivo principale è salvare la vita delle persone. Questa è la nostra stella polare. Detto ciò, noi intendiamo raddoppiare la nostra dimensione. Siamo cresciuti in maniera importante nel 2023 e puntiamo a superare i 2 miliardi di fatturato nei prossimi anni. Non vogliamo diventare i più grandi, ma migliori. Affiancando agli obiettivi di crescita e di sviluppo anche obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera, dei rifiuti e dei consumi d’acqua.

Devo dire che, anche in questo caso, stiamo raggiungendo degli obiettivi piuttosto importanti. Ma per crescere abbiamo bisogno di portare all’interno dell’azienda nuove competenze, necessarie per creare un nuovo stabilimento, aumentando la nostra capacità di frazionamento del plasma e di purificazione del plasma. Il secondo obiettivo è lavorare sullo sviluppo di nuovi farmaci attraverso le tecnologie innovative. Penso alla proteomica e alla ricerca, all’interno del plasma donato dal paziente, delle proteine che possono poi avere un utilizzo nel trattamento di malattie rare.

Restiamo sul fronte plasmaderivati: come sono cambiati i pazienti negli ultimi anni?

Oggi sono molto più informati rispetto a prima e hanno un ruolo proattivo, e questa è una conseguenza della pandemia. Negli anni di Covid c’è stato un calo di donatori e una la mancanza di prodotti di plasmaderivati negli ospedali su scala globale. Questo ha evidenziato l’importanza di avere un sistema di raccolta del plasma che possa veramente supportare il fabbisogno di ogni singolo Paese.

In estate si vive sempre un periodo di difficoltà sul fronte del sangue…

Vorrei fare un appello agli italiani: andate a donare prima di partire per le vacanze. In Italia si dona molto il sangue e non il plasma, e a farlo sono soprattutto persone oltre i quarant’anni. Dobbiamo parlare ai giovani, perchè sono proprio loro che potrebbero dare l’impulso fondamentale per arrivare all’autosufficienza sul fronte del sangue.

Il mondo della salute è alle prese con la rivoluzione dell’AI, dei big data, degli algoritmi. Come guarda a queste innovazioni?

L’intelligenza artificiale può avere un impatto veramente ‘disruptive’, giocare un ruolo importantissimo, accelerando lo sviluppo dei farmaci, riducendo i tempi ma anche – almeno in via teorica – arrivando a eliminare la sperimentazione sugli animali.

Ma l’AI può giocare un ruolo anche nella definizione e ottimizzazione dei trial clinici, con una riduzione dei costi e un miglioramento delle terapie nella direzione di una medicina molto più personalizzata. Potremmo essere in grado, attraverso l’intelligenza artificiale, di identificare le patologie alle quali potrebbe essere soggetto il singolo donatore in futuro. Dunque parliamo di una medicina di domani davvero individualizzata.

Lei è stato un allenatore: c’è una lezione che ha preso sul campo e che le è utile in azienda?

Ci sono molte cose che dallo sport ho trasferito nel mio stile manageriale: vengo dalla pallavolo, uno sport di squadra per eccellenza, perché nessuno può far punto da solo. Nella pallavolo si può toccare la palla solo una volta e poi bisogna darla a un compagno. Qui il concetto di squadra è spinto all’eccesso. Poi, come tutte le squadre, un’azienda vuole vincere, e vuole farlo rispettando le regole. Certo, ogni tanto bisogna accettare che si può anche perdere. Ma è importante avere la coscienza tranquilla, sapendo di aver fatto tutto il possibile.

Inoltre è importante allineare tutti sugli obiettivi e sui valori. Molte volte ci si chiede se in una squadra professionistica sono tutti amici. I giocatori non sono amici, hanno età diverse, culture diverse, religioni diverse, ma è fondamentale avere obiettivi e valori comuni.

Facciamo un passo indietro: quale era il suo sogno da bambino?

Volevo fare il chirurgo. Non il medico, proprio il chirurgo. Avevo le idee abbastanza chiare. Poi la vita mi ha portato a fare tutt’altro.

Pensando ai giovani, consiglierebbe a un ragazzo oggi una carriera nella salute?

Sì, e con grande entusiasmo. Non ho potuto fare il chirurgo, ma sono entrato nel settore della salute: quello che noi facciamo aiuta a salvare la vita delle persone, quindi non c’è un settore più bello. Poi c’è la possibilità di crescere e fare esperienze internazionali: una combinazione perfetta.

Come vede oggi le giovani generazioni?

Sarò forse in controtendenza, ma io credo che l’Italia abbia dei giovani splendidi, che hanno voglia di fare e, purtroppo, molte volte non sono messi nelle condizioni di esprimere tutte le loro potenzialità. Il mio consiglio è capire quali sono le proprie aspirazioni e seguire i propri desideri. Sapendo che hanno un vantaggio enorme rispetto a noi: sono nativi digitali e hanno una flessibilità che noi non avevamo. Questi sono elementi su cui i giovani devono lavorare, magari avendo un po’ di pazienza: per raggiungere gli obiettivi, occorre un po’ di tempo. Ecco l’unico appunto che posso fare ai nostri giovani: vogliono correre e magari, talvolta, accelerare un po’ troppo.

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