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Trump è in vantaggio sul fattore “soldi” e la Silicon Valley guarda (anche) a destra

C’è un aspetto assai rilevante in ogni campagna elettorale americana che si rispetti: i soldi. In America, infatti, i soldi non sono lo sterco del demonio ma un fattore di libertà, uno strumento di emancipazione dell’individuo. E un elemento chiave per il successo di una candidatura. Del resto, nelle democrazie la politica ha bisogno di soldi per costruire il consenso, solo le dittature non hanno questo problema.

Nei giorni del primo duello televisivo tra i due candidati in pectore, gli highlander Joe Biden e Donald Trump, le coalizioni di interessi si “misurano”, letteralmente, in termini di raccolta fondi. A Fortune un professore di Yale, Jeffrey Sonnefeld, ha raccontato che nessuno dei “Fortune 100 CEOs” – un gruppo che storicamente ha sempre sostenuto i Repubblicani – avrebbe effettuato donazioni in favore dell’ex presidente Trump nel 2024. Soltanto due di loro avrebbero donato a Trump nel 2020, nessuno nel 2016, mentre 28 dei “Fortune 100 CEOs” avrebbero sostenuto Mitt Romney nel 2012 e John McCain nel 2018.

Trump solo contro tutti

La tesi è la seguente: Trump è il candidato dei Repubblicani più disprezzato dal mondo imprenditoriale Usa. È quello che riscuote il minor consenso e, dunque, il minor supporto finanziario. In realtà, le cose non stanno esattamente così. A cinque mesi dal voto, secondo i documenti presentati dalle due campagne, Trump è in vantaggio su Biden quanto a finanziamenti: il primo può contare su 116,6 milioni di dollari in contanti, mentre Biden è fermo a 91,6 milioni, cui si aggiungono i circa trenta raccolti a metà giugno a un evento organizzato da George Clooney e Julia Roberts. Esiste dunque un mondo imprenditoriale che va oltre le classifiche delle riviste.

Com’è noto, la Silicon Valley è da sempre schierata in favore di Biden ma, a differenza del passato, non più in maniera esclusiva. I ricconi di Hollywood e, in generale, i salotti culturali della upper class guardano a Trump e al suo clan dall’alto in basso, come un pericolo per la democrazia, una specie di cavernicolo allergico a wokismi vari e alle cause lgbtq plus (si dice così). In molti, dunque, gli sono apertamente ostili, ma alcuni – e di prim’ordine – invece lo supportano. Elon Musk, seppure parco nelle donazioni, è un fiero alfiere del trumpismo, un paio di mesi fa ha organizzato a Los Angeles una cena che aveva come tema l’opposizione alle politiche di Biden ma che, di fatto, apriva le danze per la corsa ai finanziamenti a favore di Trump.

Con Musk c’erano pesi massimi dell’establishment Usa: David Sacks, il finanziere (ed ex ministro del Tesoro di Trump) Steven Mnuchin, il fondatore ed ex capo di Uber Travis Kalanick, Michael Milken (negli anni ’80 re dei junk bond, ora acclamato filantropo e promotore di centri di ricerca economica). Last but not least, c’era l’editore Rupert Murdoch che, dopo aver inizialmente rotto con Trump all’indomani dell’assalto a Capitol Hill, ha schierato i suoi canali a favore di Trump (da Fox News al Wall Street Journal passando per il New York Times, sempre attentissimo alle vicende del figlio di Biden).

Lo scorso 6 giugno Sacks, investitore del venture capital ed ex direttore generale di Paypal, ha tenuto un ricevimento a sostegno della candidatura di Trump, e ha scelto San Francisco come sede. Come a dire: la Silicon Valley siamo anche noi. Le cifre per partecipare: 300mila dollari (per far parte dell’host committee), 50mila dollari se ci si accontenta di una partecipazione “standard” all’evento. C’è poi il caso di Timothy Mellon, erede di una delle più ricche famiglie d’America, che ha versato 50 milioni di dollari alla campagna del tycoon, segnando il record per una donazione singola.

Tutto questo per dire, che, anche se buona parte del mondo digitale – Apple, Google, Facebook, Reid Hoffman di Linkedin – resta schierato con i democratici, la Silicon Valley non è più un monolite inespugnabile. Forse preoccupa la stanchezza sempre più manifesta del presidente in carica o, ancor di più, il timore di politiche pro-tasse, più volte annunciate da Biden e fortemente volute dall’ala sinistra del Partito democratico, nonché il piano ventilato di riattivare, attraverso agenzie federali come la Ftc e la Sec (la Consob americana), norme antitrust dimenticate da decenni. Ci sono poi le grandi famiglie ebraiche che hanno finanziato per anni i college più blasonati d’America e si sono ritrovate a fare i conti con un antisemitismo sempre più diffuso nei campus americani e sostenuto anche da un’ala del Partito democratico.

Insomma, il quadro è in movimento, Trump in provvisorio vantaggio sul fattore “soldi” e la Silicon Valley non è più la stessa.

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